L’ipocrisia moderna di continuare a nascondere, a censurare tanti troppi drammi che ci urlano in faccia tutto il loro dolore
‘Un evento legato a cause esterne’ era la macchinosa terminologia usata dalle Ferrovie federali svizzere quando qualcuno metteva fine alla propria vita sulle rotaie di un treno. Da inizio giugno, per fare maggiore chiarezza, la nuova formulazione sarà ‘incidente di persona’. Un cambiamento criticato dalla società di psichiatria e psicoterapia di Zurigo, per il rischio di emulazione. Non siamo d’accordo: parlare di suicidio in modo intelligente, senza morbosità su luoghi e dettagli, aiuterebbe invece a rompere un tabù. La Svizzera continua infatti a ‘vantare’ uno dei tassi di suicidio tra i più alti al mondo: mille casi l’anno secondo l’Osservatorio svizzero della salute (Obsan, 2020). È la quarta causa di morte nei giovani tra 15 e 19 anni. Ne sa qualcosa il reparto di pedopsichiatria all’ospedale Civico di Lugano, dove arrivano sempre più adolescenti, anche 11enni, per tentativi di suicidio.
Perché continuare a nascondere, spegnere, zittire una realtà che ci urla in faccia tutto il suo dolore? Prima si impara a navigarci dentro, più si sarà attrezzati per stare a galla. Invece la tendenza è esattamente quella opposta. Viviamo in una società che tende a mettere a tacere le emozioni ‘scomode’: paura, rabbia, tristezza, voglia di suicidarsi. Vengono negate, rimosse. Metterci un coperchio sopra non fa altro che ingigantirle. Ogni tabù si nutre della linfa corrosiva del segreto. Nel Paese dei suicidi, il suicidio è un tabù. Eppure non è un virus che si prende parlandone; la censura negli anni non lo ha fatto scomparire. Anzi il silenzio, forse, lo ha reso ancora più forte in una società che tende a rimuovere il dolore, perché troppo presa a rincorrere un sistema di valori ideali molto elevati. Si fatica a trattare queste emozioni nei mass media come dentro a una relazione familiare. Si evita di nominare il dolore, di parlare di suicidio. Eppure tra i giovanissimi c’è chi invece di godersi la spensieratezza dei suoi anni soffre di un indefinibile malessere dell’anima (così lo definiscono!) e pensa al suicidio: con chi possono parlarne? A volte un pensiero espresso e condiviso diventa meno invadente e pesante. Lo si respira e porta insieme. Una buona relazione implica anche questo: tu che cosa provi, di che cosa hai bisogno? Soprattutto in questi anni tribolati dove aumentano precariato e problemi; dove si assiste impotenti a carneficine senza senso, condividere lo smarrimento, mettere un nome alle emozioni, farne qualcosa insieme, aiuta ad alleggerire fardelli, altrimenti insopportabili. Un esempio è il dramma a Gaza: c’è chi parte su un vascello per portare aiuti, chi scende in piazza, chi blocca i treni nelle stazioni elvetiche, chi prega, chi invia soldi, chi si isola da tutte le notizie… Strategie per condividere, per reagire a ingiustizie tremende. Ci si sente meno soli in un mondo che non si capisce. Lo stesso vale per i suicidi: una sofferenza da ascoltare più che da nascondere.
Quando c’è ‘un incidente di persona ferroviario’ le vittime sono sempre almeno due, chi è sui binari e il macchinista, che all’ultimo chiude gli occhi e si tappa le orecchie. Lo fa per evitare un contatto visivo, intimo. Lo sguardo ti fa entrare in relazione diretta con l’altro e ti coinvolge ancora di più. A quel punto, il cadavere diventa una persona, non è più solo un corpo travolto dal treno. Dietro ogni suicidio c’è una storia, qualcosa si è rotto. Raccontarlo potrebbe aiutare altri a non percorrere la stessa via.