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Trump, saggio a sua insaputa

Il presidente americano sbotta con Israele e Iran: ‘Non sanno cosa cazzo stanno facendo’. Una frase dal significato ben più profondo delle sue intenzioni

In sintesi:
  • Farsi la guerra da sempre porta a non ricordare più come è un mondo senza. Un esercizio che sarebbe utile non solo in Medio Oriente
  • Trump, nel suo modo sboccato, provocatorio, gretto e greve ha per una volta detto una cosa saggia, e cioè che è arrivato il momento di fermarsi una volta per tutte
Trump mentre pronuncia la sua frase a effetto davanti ai giornalisti
(Keystone)
25 giugno 2025
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Da “l’unica cosa di cui avere paura è la paura stessa” di Franklin Delano Roosevelt a “non chiederti cosa il tuo Paese può fare per te, ma chiediti cosa puoi fare tu per il tuo Paese” di John Kennedy; da “Mister Gorbaciov, tiri giù questo muro” di Ronald Reagan a “questi due Paesi hanno combattuto così a lungo e così duramente che ora non sanno cosa cazzo stanno facendo” di Donald Trump. Ogni momento storico ha evidentemente la frase che si merita, detta nel modo che si merita.

Ma c’è un secondo livello di lettura nelle parole del presidente americano, di cui lui – abilissimo nel surfare sulla superficie delle cose ignorando e schivando ogni tipo di profondità – nemmeno si sarà accorto, pronunciandole. E cioè che Israele e l’Iran – ma anche Hamas, gli invasori di Mosca in giro per l’Ucraina con in mano le vecchie mappe polverose della Grande Russia o i nazionalisti fuori tempo massimo della Jugoslavia implosa oltre trent’anni fa che fanno di tutto per riaccendere la miccia nei Balcani – non sanno nemmeno più per cosa si fanno o si vorrebbero fare la guerra.


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Murale antiamericano a Teheran

O meglio, sanno chi stanno odiando, perché glielo insegnano da piccoli e poi li confondono da grandi; sanno il motivo che ha portato i loro popoli a detestarsi così tanto e così a lungo, ma non sanno che potrebbero anche smettere di farlo. Che bisognerebbe fare tabula rasa, sì, ma di cattivi pensieri, non certo con le bombe. E che se l’ultimo a vendicare sono io – per quanta soddisfazione mi possa dare la vendetta – sarò solo il prossimo di cui si vendicheranno, lasciando in eredità altro odio a chi dico di amare tanto e verrà dopo. Certo, non sono tutti così, da quelle parti, ma quelli che sostengono Netanyahu e Khamenei sì.

Quelli che soffiano sull’odio per alimentare il caos, il proprio consenso, il proprio ego – e in molti casi pure il proprio portafoglio – sono uguali in tutto il mondo. E quelli non bisogna andare fino in Medio Oriente per trovarli: ci sono anche in Europa, ci sono anche in Svizzera. Anche in Ticino. Certo, a queste latitudini ci evitiamo i massacri. O li facciamo per corrispondenza. Ma il concetto non cambia. Serve qualcuno in grado di spezzare la catena con un gesto in grado di prendere tutti alla sprovvista, come fece Nelson Mandela in Sudafrica dopo la sua liberazione: avrebbe avuto ottimi motivi per odiare, ma li ha lasciati dov’erano, nel passato. Ed è andato avanti, togliendo la carta dell’odio dal tavolo a chi sapeva giocare solo con quella.


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‘Ricercato per crimini contro l’umanità’

Trump, nel suo modo sboccato, provocatorio, gretto e greve ha per una volta detto una cosa saggia – seppur con una parolaccia dentro (più di tanto non possiamo pretendere) –, e cioè che è arrivato il momento di fermarsi una volta per tutte, perché iraniani e israeliani sanno cosa stanno facendo, ma non più perché, un po’ come in quelle saghe medievali in cui due famiglie si ammazzavano e si decimavano l’un l’altra usando come pretesto torti subiti da avi lontani che nessuno aveva mai conosciuto, di cui nemmeno c’era più traccia certa di cosa fosse successo. Di chi avesse fatto cosa a chi.

Combattere, uccidersi per abitudine, per consuetudine, per pura reazione, può sembrare ad alcuni un atto da valorosi uomini d’azione, e invece non c’è niente di più pigro, oltre che di stupido e controproducente. Diceva un predecessore di Trump, un certo Abramo Lincoln: “Non distruggo i miei nemici facendomeli amici?”.


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Un ritratto di Abramo Lincoln nella Portrait Gallery di Washington