laR+ IL COMMENTO

Sul clima nel reparto di ortopedia c'è un chiarimento da operare

Gli strumenti per segnalare ci sono, il coraggio di utilizzarli meno. L'Eoc, e chi condurrà le verifiche, dovrà quindi agire anche in questa direzione

In sintesi:
  • Emblematica l’ammissione di un giovane chirurgo in formazione: “Operavamo con l’intenzione di fare buona figura nel rapporto d’intervento poi visionato dai superiori. Allungando, se necessario, anche i tempi dell’operazione”
  • La sanità non deve avere zone d’ombra. La salute è un bene collettivo.
(Ti-Press)
27 giugno 2025
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C’è da essere preoccupati, molto preoccupati, nel leggere le testimonianze di chi ha lavorato nel reparto di ortopedia dell’Ospedale regionale di Lugano. Ex collaboratori che hanno segnalato una situazione decisamente oltre il limite dell’accettabile dal profilo umano e gestionale. Pressioni e vessazioni sul personale, “in un clima quasi paramilitare”, da parte di chi dirige il reparto, che si riflettono di conseguenza anche sulla cura dei pazienti. Emblematica l’ammissione di un giovane chirurgo in formazione: “Operavamo con l’intenzione di fare buona figura nel rapporto d’intervento poi visionato dai superiori. Allungando, se necessario, anche i tempi dell’operazione”. Racconti che, se confermati, rischiano di minare la fiducia dei cittadini nel sistema sanitario ticinese. Serve quindi che le storie portate alla luce da alcuni media, tra cui laRegione, arrivino anche nelle sedi opportune, sulla scrivania di chi può eventualmente prendere i giusti provvedimenti.

Bene ha fatto quindi l’Ente ospedaliero cantonale ad attivare serie verifiche – affidandosi a un profilo esperto ed esterno come quello dell’avvocato Raffaella Martinelli Peter, la stessa che si è occupata degli audit sui casi di molestie e mobbing all’interno dell’associazione per ciechi e ipovedenti Unitas e alla Rsi – per capire se quanto emerso in questi giorni, attraverso una segnalazione interna inoltrata il mese scorso, corrisponda alla verità.

Una segnalazione, una sola, per denunciare una situazione interna al reparto di ortopedia che in diversi avrebbero subito e della quale molti sarebbero a conoscenza. L’Eoc negli anni, e questo è un fatto, ha messo a disposizione gli strumenti per segnalare anonimamente situazioni che non funzionano. Un sistema di ‘whistleblowing’ decisamente all’avanguardia a livello cantonale e non solo.

Quasi nessuna delle persone che abbiamo incontrato, e sono ben più delle tre citate nell’articolo pubblicato mercoledì, ha però considerato seriamente questa possibilità. Sfiducia, paura e volontà di tenersi lontano dai problemi. Specialmente se si è in formazione, specialmente se il proprio contratto deve essere rinnovato di anno in anno con le stesse persone che hanno o avrebbero atteggiamenti inopportuni.

Emblematico quanto successo con un giovane medico che abbiamo incontrato settimane fa. Una testimonianza, la sua, che non abbiamo pubblicato nonostante giornalisticamente fosse la più solida e quella di maggior impatto emotivo. Dopo averci incontrato di persona, raccontando per oltre due ore la sua storia e mostrando scambi di e-mail e registrazioni telefoniche che attestano senza ombra di dubbio un atteggiamento sbagliato del suo superiore, il dottore ha deciso di fare un passo indietro. “Non me la sento più. Non pubblicate la mia storia” è stato il messaggio arrivato alcuni giorni dopo il nostro incontro. Una volontà che abbiamo rispettato, pur con una certa frustrazione.

E qui si arriva a un punto centrale del quale si parlava in precedenza: gli strumenti di segnalazione non bastano se non sono accompagnati da una cultura aziendale e sociale che faccia emergere queste situazioni. Per chiarire quanto affiorato in queste settimane servirà quindi anche un lavoro proattivo. La volontà di andare a cercare testimonianze e racconti di chi sa ma è timoroso di parlare. Perché queste persone ci sono. Perché la sanità non deve avere zone d’ombra. La salute è un bene collettivo.

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