laR+ IL COMMENTO

Il Medio Oriente e la pax israeliana

Una mappa frazionata, come sospesa, imprevedibile nei suoi sviluppi. Tattica voluta. Che per ora consente a Israele di ‘guadagnare tempo’

In sintesi:
  • Che Medio Oriente sarà? Come cambierà la mappa regionale dopo i successi militari israeliani sui vari fronti aperti da Benjamin Netanyahu per regolare i conti dopo l’attacco terroristico jihadista del ‘7 ottobre’
  • Ancora non si sa. Anche e soprattutto sugli sviluppi di quella ‘pulizia etnica’ già in corso e che, sarebbe soltanto l’anticamera della deportazione verso i Paesi arabi vicini di almeno un milione di abitanti dell’enclave
(Keystone)
21 luglio 2025
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Che Medio Oriente sarà? Più concretamente: come cambierà la mappa regionale dopo i successi militari israeliani sui vari fronti (“ben sette”, hanno ripetuto i suoi generali) aperti da Benjamin Netanyahu per regolare i conti dopo l’attacco terroristico jihadista del “7 ottobre”. Attacco riuscito anche per parziale responsabilità del premier, indifferente ai pre-allarmi dell’intelligence e colpevole di aver favorito i finanziamenti arabi ad Hamas e inibito il progetto di pace dei due Stati.

Nella mattanza senza limiti di Gaza, andata oltre ogni limite di sopportazione per numero di vittime civili palestinesi e devastazione territoriale, “Bibi” è ancora ostaggio degli… ostaggi israeliani rimasti nelle mani dei jihadisti gazawi dopo oltre due anni e mezzo di una caccia feroce e senza quartiere contro i “residui” di Hamas. Il cui destino (resa o fuga) sembra comunque segnato. Questione di tempo, ma è difficile immaginare che i combattenti islamici della Striscia insanguinata possano avere ancora un ruolo in un futuro negoziato. Ma poi? Ancora non si sa. Anche e soprattutto sugli sviluppi di quella “pulizia etnica” già in corso e che, secondo gli esponenti più radicali del governo “messianico”, sarebbe soltanto l’anticamera della deportazione verso i Paesi arabi vicini (ma quali?) di almeno un milione di abitanti dell’enclave, seguita dal ritorno di insediamenti ebraici smantellati vent’anni fa da Sharon. Davvero anche stavolta la comunità internazionale potrà guardare senza reagire a un tale obbrobrio umanitario e a una violazione del diritto internazionale di queste proporzioni? Certo, dalla prepotenza dell’alleato Trump tutto può nascere, anche i progetti più stravaganti (come Gaza trasformata in “Rimini del Medio Oriente”), propositi che non tengono però conto della determinazione della popolazione palestinese a non subire una “seconda Nakba”, come fu la “catastrofe” del 1948.

L’incertezza – che impedisce agli israeliani di provare l’euforia che accompagnò le conquiste territoriali del giugno 1967 – rimane in parte anche sugli altri fronti. Per l’Iran duramente colpito e indebolito dalla cosiddetta “guerra dei dodici giorni”, con l’entrata in guerra anche degli Stati Uniti, ma forse non del tutto “denuclearizzato” e soprattutto senza quella sollevazione popolare più volte auspicata da Netanyahu; per la Siria, uno Stato disarticolato fra le sue numerose componenti etnico-religiose, con Israele che approfitta del suo debole governo per occupare l’intero Golan e avere il pieno controllo della via per Damasco; per il Libano, occupato al Sud, profondamente ferita Beirut, l’Hezbollah che, nonostante la decapitazione subita, ancora fa parte del governo nazionale; e poi l’Irak, dove rimane al potere la maggioranza sciita in stretto collegamento con Teheran; e il lontano Yemen, con la minoranza sciita degli Houthi che dialoga tranquillamente con Washington. Il settimo è un fronte interno: la Cisgiordania dimenticata, ma stretta nella morsa di esercito e di coloni sempre più aggressivi: 500 morti dopo il 7 ottobre. Una mappa mediorientale frazionata, come sospesa, imprevedibile nei suoi sviluppi. Tattica voluta. Che per ora consente a Israele di “guadagnare tempo”. Ma senza progettualità politica, quindi con limiti di sostanza e di durata. Anche a credere a Ben Gurion: “In Israele per essere realisti bisogna credere nei miracoli”.