laR+ IL COMMENTO

Cara Prudenza, non vuoi aprire gli occhi?

In Ticino l’appartenenza partitica è condizione sine qua non dell’eleggibilità: relazione clientelare che fa da specchio a tutta una serie contigua

In sintesi:
  • Nessuno può illudersi che attraverso un cambio delle regole elettorali si riesca ad andare lontano
  • Ma potrebbe essere un valido tentativo per smuovere un po’ le acque (piuttosto luride) di questa stabilità
(Ti-Press/laR)
31 luglio 2025
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A ridosso della Festa nazionale del 1° agosto diventa difficile, ascoltando il secondo brano del primo disco del magistrale ‘White Album’ dei Beatles, non pensare a “mamma” Elvezia: “Dear Prudence, greet the brand new day. The sun is up, the sky is blue. It’s beautiful and so are you”.

Ah, la buona e cara Prudenza, quella prudenza svizzera alla quale rimanere fedeli a prescindere perché “ha permesso in questi secoli nel nostro Paese di far coesistere culture diverse”. La prudenza quale premessa di un altro baluardo del modello elvetico: la collegialità, “principio che mira alla coesione e alla stabilità”. Sarà mai in grado di comprendere, apprezzare e – seppur ineluttabile, dopo certe scempiaggini – evitare di mettere in discussione determinati principi fondanti della nostra realtà istituzionale chi in queste terre non è nato, ma piuttosto capitato a un certo punto della sua biografia? La domanda sembra soggiacere al recente intervento su queste colonne del consigliere di Stato Christian Vitta, più a mo’ di lapsus che non come espressione cosciente di qualsivoglia retorica xenofoba. Un quesito che resta in ogni caso un valido spunto.

Amalia Mirante è nata nel Luganese e si è laureata in economia all’Usi. Damiano Bardelli invece è del Mendrisiotto, i suoi studi in storia li ha fatti all’Università di Losanna. Entrambi si sono pronunciati, nei giorni scorsi, a favore di una revisione del sistema per l’elezione del Consiglio di Stato in Ticino. Come mai – ci si può chiedere – i due sottocenerini, nonostante le loro origini nostrane, si allontanano con i rispettivi ragionamenti dallo status quo “proporzionale” che contraddistingue l’elezione del governo nel nostro cantone dal lontano 1892? Avrebbe certamente gioco facile chi volesse squalificare la posizione di Mirante: la granconsigliera ha un interesse personale a una modifica delle regole elettorali in quanto potrebbe, in teoria, facilitare il suo ingresso nella stanza dei bottoni. Lo spiega anche Vitta (e vale pure per lui): quando si toccano i meccanismi elettorali ogni attore valuta i cambiamenti in funzione del proprio beneficio. Bardelli dal canto suo propone un altro tipo di riflessione – puramente accademica, che condividiamo –, in cui promuove l’introduzione di un maggioritario “alla svizzera”: a conti fatti, sostiene il ricercatore, “la storia politica del Canton Ticino è la storia della sua legge elettorale”. Quella che, di primo acchito, può sembrare una definizione quasi proverbiale, risulta invece una formulazione carica di significato. Senza necessità di entrare nei tecnicismi e per come stanno le cose oggi, sarebbe lecito affermare che l’appartenenza partitica rappresenti una condizione sine qua non dell’eleggibilità. Una forma primordiale di relazione clientelare che fa da specchio a tutta una serie di promiscue e analoghe relazioni contigue: politica-amministrazione pubblica, politica-giustizia, politica-economia.

Nessuno può illudersi che attraverso un cambio delle regole elettorali, ma mantenendo gli stessi interpreti, si riesca ad andare lontano. Tuttavia una certa prudenza, più filosofica che elvetica, si imporrebbe: il modo di produrre (eleggere) il governo – inteso come sintesi tra l’elemento astratto-universale degli elettori e un concreto-particolare sistema di elezione – non appare un passaggio da sottovalutare. Pure se in fondo non fosse altro che un tentativo per smuovere un po’ le acque (piuttosto luride) di questa stabilità. Una stabilità funzionale, almeno in Ticino, a chi mira a rimanere arroccato al potere.

Dear Prudence, won’t you open up your eyes? (con la voce di Lennon).