Keller-Sutter e la delegazione svizzera snobbati da Trump, tornano senza un risultato dalla loro trasferta americana. Cronaca di un viaggio fantozziano
Certe storie tragicomiche, di persone con un peso e un ruolo svuotati dalle decisioni di chi pesa e conta di più, fino a non farle contare nulla, si somigliano tutte. Fino a poter sovrapporre Karin Keller-Sutter e Francesco Totti.
È il 2009. Alla Roma si dimette Luciano Spalletti. “Allora i dirigenti chiedono a me e agli altri senatori della squadra di andare a Villa Pacelli per incontrarli. Arriviamo, ci sediamo e ci dicono: ‘Per il nuovo allenatore ci sono due opzioni. Roberto Mancini o Claudio Ranieri’. Discutiamo e ci mettiamo d’accordo su Mancini. E la dirigenza: ‘Vada per Mancini’. Andiamo via, arrivo a casa, accendo la tv e leggo: ‘Il nuovo allenatore della Roma è Claudio Ranieri’. Bene. Bella passeggiata che abbiamo fatto”. Di quella gita e di quel parere - entrambi inutili - Totti raccontò, divertito, anni dopo.
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Hai visto i dazi? Erano qui da qualche parte
E se a qualcuno può apparire sminuente paragonare la presidente della Confederazione a un calciatore, sarà il caso ricordargli che almeno Totti e compagni erano stati convocati. Keller-Sutter, Parmelin e la delegazione svizzera, la gita americana se la sono organizzata da soli. Nessuno, dagli Stati Uniti, li aveva invitati né cercati. Per Washington la decisione sui dazi era già presa: e l’amica Svizzera (colei, che – tra le altre cose – ricordiamolo, funge da mediatore diplomatico tra Usa e Iran) era stata trattata come un Lesotho qualsiasi. Anzi, peggio: i dazi del Lesotho sono passati dal 50% iniziale al 15%, quelli della Svizzera dal 31% di quella pagliacciata chiamata Liberation Day (quando Trump si mostrò al mondo con una lavagna da allibratore di corse dei cavalli) al 39% scattato ieri. Otto punti percentuali in più dopo la telefonata surreale del primo agosto tra Keller-Sutter e Trump, su cui lei glissa, mentre lui – da gradasso qual è – ha riportato la versione da vitellone fuori tempo massimo che rimorchia e poi scarica le (svizzero)tedesche: “Ho parlato col primo ministro svizzero, una donna, non la conosco”.
Una volta a Washington, Keller-Sutter ha dovuto anche subire lo sgarbo diplomatico di essere ricevuta non dal suo omologo, ma dal segretario di stato Marco Rubio. Trump si è negato. Impegni inderogabili? Non proprio. Visto che più o meno nelle stesse ore si è messo a fare uno show sul tetto della Casa Bianca, in occasione dei lavori di ristrutturazione, suggerendo (scherzosamente, pare, ma mai dare nulla per scontato con lui) di installare missili nucleari sul terrazzo. Insomma, siamo dalle parti di: “Scusa sai, c’avevo judo”.
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Trump sul tetto della Casa bianca
A rendere ancor più fantozziana la deriva dell’esecutivo svizzero, le frasi pizzicate sui fogli portati a Washington da Parmelin, in cui si scorgono lisciate di pelo in lingua inglese (o meglio: lingua svizzera, ma in inglese) destinate a Rubio. Così, anziché accontentarsi di “baciare un culo” (Tump dixit), la Svizzera, nel dubbio, ne ha baciati due.
Magari scopriremo che sarà servito a qualcosa questo sfoggio di asservimento in mondovisione, questo scodinzolare al padrone che ti ha appena bastonato. Certo che la conferenza stampa figlia del “fallimento” (l’hanno chiamato così pure loro) serve solo a tamponare le ferite e poco altro. Con una parola, tra le tante dette, che mostra per paradosso la fragilità di chi governa: “Resilienza”. Termine scientifico – spuntato dal nulla qualche anno fa e ormai entrato nel vocabolario comune – con cui solitamente si fanno forza donne e uomini piantati in asso dall’ex abbinandolo a selfie di facce allegre dall’animo triste, di chi – spiazzato da decisioni altrui – non sa più che pesci pigliare. Proprio come il Consiglio federale con i dazi.
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Anti-trumpiano a Ginevra