Zelensky e i suoi alleati europei, attesi oggi alla Casa Bianca, non hanno possibilità alcuna di sostituirsi agli Stati Uniti
Vladimir Vladimirovič Putin aveva tutto dalla sua parte nel summit d’Alaska. Non solo il vantaggio sul terreno bellico. Ma anche l’intelligenza tattica, un’Europa balbuziente e soprattutto un interlocutore americano più che contraddittorio e cedevole. Arrivato ad Anchorage preceduto da dichiarazioni categoriche del presidente americano sulla volontà di ottenere almeno un cessate il fuoco (“altrimenti passerò a pesanti sanzioni contro la Russia”), Trump si è esibito in uno dei suoi peggiori voltafaccia, concedendo il massimo possibile al ‘nuovo zar’: la riabilitazione sulla scena internazionale più prestigiosa (polverizzando il mandato di cattura della Corte penale internazionale), il diktat su tempi e modi di proseguire il dialogo (“ci si rivede a Mosca”), una postura da tempi di “Guerra Fredda”, dialogo su un piano di parità e non da ex superpotenza condannata dalla Storia. L’immagine del ministro degli Esteri Sergei Lavrov, che si presenta indossando una maglia con le vistose lettere in cirillico dell’Urss, era un messaggio eloquente: la Russia, come allora, vuole la sua parte di influenza “nel” e “del” mondo, e la premessa-promessa di riportare a casa l’Ucraina ribelle è presentato come il primo step, il preambolo. Certo, nell’immediato lo zar pretende almeno il Donbass, non solo la regione russofona, ma anche e soprattutto quella parte ucraina economicamente più ricca e sviluppata. Poi, appena possibile, tutto il resto. Infatti, cos’altro può essere la “cosa enorme” che Trump ha segnalato, senza precisare, nelle dichiarazioni finali, principale ostacolo a un accordo complessivo per far tacere le armi? E cosa ha costretto alla resa un tycoon fisicamente traballante e assai desideroso di gettare in fretta la spugna, rimediando – lui, candidato al Nobel per la pace – la peggiore figuraccia diplomatica che ci si potesse immaginare?
Si sa, convocati oggi alla Casa Bianca, Zelensky e i suoi alleati europei (la cosiddetta ‘Coalizione dei Volenterosi’) non hanno possibilità alcuna di sostituirsi agli Stati Uniti. Altro che “Zelensky tira un sospiro di sollievo”, com’era stato scritto nelle ore immediatamente successive alla fine del vertice. Sì, ha ironizzato qualcuno, “l’ultima sigaretta” del presidente ucraino. Di cui Mosca continua a chiedere la testa. Come Putin deve aver reiterato al summit. Frettolosamente organizzato sul… non detto. E cioè: cosa vuol garantire Mosca nei confronti di un’Ucraina cui la Russia non riconosce il diritto di esistere ma unicamente la possibilità (Putin dixit) di tornare alla Madre Russia attraverso una profonda “normalizzazione”: a Kiev un governo amico di Mosca e ad essa sottomesso, nel Paese una generale operazione di denazificazione, demilitarizzazione, asservimento, niente adesione alla Nato, ma neppure all’Unione europea.
Sì, proprio la “normalizzazione” evocata dalla maglia del ministro Lavrov. Utile a rincuorare in patria e all’estero quella parte di opinione pubblica che con soddisfazione vede riproposte le regole dello stalinismo, ampiamente riabilitato. È Putin che deve decidere su questo problema di fondo. Non lo svogliato Trump. Che una volta disse: “Ma l’Ucraina, che Stato è?”. Musica per le orecchie dell’amico russo.