Israele invita dieci influencer per fargli dire la ‘sua’ verità su Gaza. Servizi grotteschi che dicono molto della crisi dei media e della loro importanza
“L’Onu porta il cibo a Gaza per far vedere che fa qualcosa di produttivo, ma non finisce mai il lavoro”. Pausa. Ammiccamento. “Proprio come il tuo ex”. Risatine, occhiolini alla telecamera e voce ilare di chi sta facendo battute da “American Pie” dalla sua cucina mentre prepara una ricetta nella friggitrice ad aria. E invece l’influencer da un milione di follower Xaviaer DuRousseau – uno che, per capirsi, contiene un errore perfino nel nome di battesimo – parla di verità, credibilità e guerra da un luogo di guerra: per essere precisi da un piazzale del valico di Kerem Shalom stracolmo di aiuti umanitari che, secondo lui, non arrivano a Gaza per colpa di Hamas e di qualche altro complotto ordito dall’Onu e dalle Ong brutte e cattive, non certo per colpa di Israele.
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DuRousseau e uno dei suoi post fatti dopo la visita
DuRousseau (passato dal movimento Black Lives Matter ai Maga di Trump facendo un salto quantico come i Sessantottini diventati pasdaran di Berlusconi) è uno dei dieci influencer che Israele ha invitato per raccontare bugie spacciandole per una verità alternativa, nella speranza che – a forza di uccidere, spaventare e negare l’ingresso ai giornalisti veri – diventi l’unica verità veicolata al di fuori della Striscia.
La loro ossessione, che poi è l’ossessione di chi gli ha commissionato questa gita premio vista orrore, è la “verità”. O meglio, sottolineare come quello che dicono lo sia dall’alto di un prestigio inesistente, fatto non di studi, articoli e riflessioni, ma di numeri ingigantiti dagli algoritmi dei social, che nel caso di DuRousseau mettono in fila il fidanzamento di Taylor Swift, un aperitivo in spiaggia e una corrispondenza di guerra teleguidata che finisce con una canzone su Hamas e un balletto.
Jeremy Abramson (459mila follower) dice nel suo video: “Sono qui per raccontare la verità, vederla con i miei occhi”. Il racconto di Marwan Jaber e Abraham Hamra (330mila follower in due) inizia con le loro sagome sullo sfondo di un videogioco (Candy Crush) e la scritta “andiamo a vedere la verità”. A sentire loro si potrebbe finire per credere che Israele stia facendo di tutto per salvare le vite dei palestinesi, ma una congiura internazionale li sta fermando. Presto magari ci diranno che la lunga fila di carri armati diretta a Gaza City sta solo cercando parcheggio. E qualcuno ci crederà pure. Operazioni così smaccate offrono però ai media ufficiali l’occasione di mostrare la propria distanza da questi turisti dell’informazione che trattano le atrocità di Gaza come la pubblicità di una crema per i brufoli, appiattendo tutto al livello di un karaoke alcolico.
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La presentazione stile videogioco del ‘servizio’ di due influencer
Peter Drucker, economista e saggista viennese nato in tempo per vedere con occhi di bambino i disastri della Grande Guerra e morto poco prima dell’ascesa di Facebook, predisse in largo anticipo che il XXI secolo sarebbe stato quello dell’informazione, per lui la valuta più importante di un futuro che oggi si è fatto presente. E coniò il termine “lavoratori della conoscenza”, ritenuti indispensabili. Aveva ragione e insieme torto, se pensiamo che oggi vogliamo essere informati tutti su tutto, ma senza spendere un centesimo. Mostrando i limiti del sistema. E così, quando il potere, israeliano in questo caso (ma possiamo allargare il raggio alla Svizzera, dove da Berna alle bagattelle di quartiere si trova sempre un giulivo cantore delle balle altrui), si è reso conto che i lavoratori della conoscenza non gli facevano comodo, li ha rimpiazzati con degli impostori. D’altronde, se sei ricco e potente e una verità non ti piace puoi sempre fabbricartene una e poi metterla sul mercato senza nemmeno preoccuparti di venderla. La regali. Qualcuno se la berrà.
Keystone
Uno dei dieci influencer invitati a Gaza da Israele