Si agisce secondo i principi del capitalismo ‘estrattivista’: un cieco sfruttamento oligopolistico delle risorse che ignora qualsiasi ricaduta negativa
L’Egitto, vittima di una crisi energetica interna che negli ultimi anni ha trasformato il Paese da potenziale esportatore a debole importatore, ha siglato un accordo con Israele per la fornitura di 130 miliardi di metri cubi di gas, corrispondenti al 15-20% del suo fabbisogno. Ne parla fra gli altri Euronews, sottolineando come ciò creerà una relazione sbilanciata, costringendo lo Stato egiziano a un rapporto di dipendenza economica da Israele. Da qui alla sudditanza politica il passo è breve. Afflitto dalla povertà – e secondo Human Rights Watch, anche da un alto tasso di corruzione e repressione – il governo del Cairo per restare a galla ha deciso che la strada migliore sia un’indegna e opportunistica alleanza con Israele, dimenticando i massacri che avvengono a pochi chilometri dai propri confini e dimenticando la solidarietà del suo popolo verso i palestinesi.
Questa scelta, ovviamente discutibile, risulta meno sorprendente quando si vanno a spulciare altre “alleanze” che sorgono come funghi, anche tra nemici. Come quella che ha da poco visto Arabia Saudita, Russia, Iran e Stati Uniti insieme fianco a fianco per bloccare un accordo delle Nazioni Unite che avrebbe ridotto la produzione di plastica e/o introdotto limiti sulle sostanze chimiche utilizzate. Di un simile accordo avrebbe approfittato non solo ogni singola persona sulla Terra, ma anche l’Alleanza internazionale dei raccoglitori di rifiuti, una rete che rappresenta oltre 460’000 lavoratori in 34 Paesi dipendenti dalla plastica per il proprio sostentamento. Com’era giusto che fosse i rappresentanti dell’Alleanza hanno protestato, e com’è “giusto” che sia – per lo meno in questo mondo – sono rimasti inascoltati. Perché, secondo il credo capitalista, è meglio produrre e guadagnare (illudendosi che si possa farlo all’infinito) piuttosto che riciclare e utilizzare ciò che già si ha.
È secondo questa stessa logica che nel mondo si sta producendo troppo acciaio e, come sottolinea Patricia Cohen sul New York Times, nessuno vuole smettere. Nonostante il mercato sia inondato da acciaio cinese a basso costo, esso è un materiale strategico essenziale per l’economia e la sicurezza e ovunque si preferisce continuare a sovrapprodurlo piuttosto che seguire la logica della moderazione. Si agisce, insomma, secondo i principi di quello che è diventato il capitalismo moderno, definito come estrattivismo, il cieco sfruttamento oligopolistico delle risorse che ignora qualsiasi ricaduta negativa (distruzione dell’ambiente, povertà) e, concentrando i benefici della predazione nelle mani di pochi, lascia che i costi ricadano sul resto dell’umanità. Ciò non significa – come afferma con forza Nancy Fraser, professore di Filosofia e politica alla ‘New School for Social Research di New York’ – che i privilegiati non ricerchino anch’essi paesaggi incontaminati per il loro piacere o che non esista un “ambientalismo dei ricchi”, ma esso si focalizza in modo astratto sulla difesa della natura, mentre l’“ambientalismo dei poveri” integra la protezione dell’ambiente con questioni pratiche di giustizia sociale, sussistenza e identità comunitaria. Chi distrugge un luogo distrugge anche le persone che lo abitano. È ciò che fa chi squarcia la terra per cercare metalli, impiantare monoculture o produrre plastica. È ciò che fa Israele a Gaza, con il tacito assenso di tutti noi.