Il crepuscolo di Bayrou è quello di un Paese. Ma a guardar bene la situazione è più estesa e colpisce le democrazie, moralmente alla deriva
Un crepuscolo politico e certamente poco poetico, dietro l’angolo una lunga notte zeppa di incognite. In giornata – è ormai certo – l’Assemblea Nazionale rispedirà a casa François Bayrou e il suo governo. “Moi ou le chaos” non ha cessato di ripetere nelle ultime settimane il premier centrista.
Estrema destra e sinistra non ci stanno: inaccettabile la logica “lacrime e sangue” che impone la manovra di bilancio. Però il welfare costa, soprattutto in un Paese dove vigono le 35 ore settimanali, alzare le tasse metterebbe il cappio al collo a un’economia già fragile: bisogna tagliare 44 miliardi di spesa, è il mantra del premier.
Marine Le Pen esulta, ma non propone alternative credibili: poco importa, l’occasione per il suo Rassemblement National di occupare finalmente le stanze del potere è ghiotta. Anche il populismo della sinistra radicale non rimane impalato: niente mezze misure, avanti con “bloquons tout”, iniziativa con cui gli eredi dei “gilets jaunes” cercheranno mercoledì di mettere in ginocchio il Paese. Razionale la proposta della sinistra socialista: pareggio di bilancio attraverso la tassazione dei super-ricchi. Ottima idea, se non che cozza contro l’iceberg della concorrenza fiscale: i Paperoni, ammonisce Bayrou, rischiano in effetti di fuggire, di rifugiarsi in vecchi (Svizzera) o nuovi (Italia) paradisi fiscali.
Keystone
Jordan Bardella e Marine Le Pen, i due leader della destra francese
Interrogativo cruciale: è possibile salvaguardare democrazia politica, sovranità nazionale e globalizzazione? No, risponde da Harvard Dani Rodrik, autore di “The globalisation paradox”. La mondializzazione sposta la sovranità dalla politica ai mercati. La delocalizzazione – ci spiega Harvey Feigenbaum della George Washington University – ha portato le professioni ad alto valore aggiunto fuori dalla sfera occidentale, lasciandoci il settore dei servizi, meno remunerativo e creatore di impieghi. Arretramento e stallo nutrono la frustrazione: esplodono i populismi antidemocratici, a volte paradossalmente promossi da esponenti delle stesse élite globali (Musk-Trump) favorevoli al business più spavaldo.
Altra perversione: a darsi la zappa sui piedi e a piantare quattro chiodi sulla bara del welfare e dei posti di lavoro, nel “supercapitalismo” ci pensiamo pure noi lavoratori-consumatori quando facciamo la spesa low-cost sui siti cinesi.
A Parigi non assistiamo solo a un’impasse politica, ma a un’ulteriore tappa della crisi sistemica dell’Occidente democratico incapace di sciogliere il “trilemma” di Dani Rodrik. Al capezzale delle democrazie pasteggiano a champagne gli autocrati e i dittatori immortalati nella recente sfilata di Pechino: per loro è gioco facile gestire col pugno di ferro il disordine economico e soffocare il dissenso. Ma i nuovi Big Brothers ottengono dall’Occidente anche un regalo insperato: la rinuncia brutale a difendere i valori umanistici sui quali si è modellata la nostra civiltà.
Keystone
La rimpatriata cinese degli autocrati
Si assottiglia il divario morale tra democrazie e regimi. La loro credibilità i virtuosi l’hanno ormai affossata sull’altare di una politica a geometria variabile di stampo coloniale (Netanyahu “fa il lavoro sporco per noi” si è lasciato sfuggire il cancelliere Merz): in mondovisione da due infiniti anni siamo sordi all’incredula disperazione di quei volti semiti (sì, ma non di quelli giusti), dannati della terra (ma privati della pietà offerta agli ucraini), scomodi per le nostre coscienze, maledetti fino all’annientamento.