Quando si è alle prese con il tycoon, come con molti tiranni e aspiranti tali, metterla sul piano della patologia è una tentazione quasi irresistibile
Non sono solo i 57 minuti di durata, quasi il quadruplo del quarto d’ora che il regolamento dell’Assemblea attribuisce a ciascun intervento, a fare del discorso di Trump all’Onu un oggetto debordante. E non è nemmeno l’ecletticità delle sue perentorie attenzioni, che gli permettono di balzare quasi senza segni di interpunzione dalla terza guerra mondiale al riscaldamento globale, dal futuro della Nato all’immigrazione, liquidando tutto con la medesima sdegnosa gonfiaggine. Come di consueto il discorso trumpiano è tanto chiaro al centro – adesso comando io, e non vi libererete facilmente di me – quanto sfuggente agli estremi, non esiste chiave di lettura al contempo così alta da abbracciarne le saturnine ambizioni e così pedestre da sterrarne le non poche miserie.
“Quest’uomo è matto schiantato, gli americani non si accorgono che è imbarazzante?”, avrebbe scritto su WhatsApp un esperto diplomatico durante l’assemblea al reporter del Washington Post Ishaan Tharoor. Certo, quando si è alle prese con Trump, come con molti tiranni e aspiranti tali, metterla sul piano della patologia è una tentazione quasi irresistibile. Uno psichiatra direbbe che dalla parlata di Trump, e quindi dalla sua visione del mondo, manca quasi completamente la funzione descrittiva, mentre trabocca quella valutativa e strumentale. Il lunghissimo discorso di Trump è in sostanza un lungo elenco di cose “very good” (tendenzialmente sé stesso, o ciò che lui ha fatto) e cose “very bad” (l’Europa, la Nato, i migranti, in sintesi tutto ciò che è altro da sé), senza il benché minimo tentativo di argomentare questi giudizi o di tracciare tra un argomento e l’altro delle connessioni. I tratti tipici della lingua del narcisista o del sociopatico, concluderebbe uno psichiatra. Se invece consultassimo un esperto di comunicazione ci direbbe che Trump non sta facendo altro che attuare il precetto del suo Rasputin, Steve Bannon, “flood the zone with shit”, la traduzione è intuitiva. Un lobbista si divertirebbe invece a sottofondare il video del discorso col festoso scampanellio di un registratore di cassa: ogni passaggio riconducibile a un facoltoso gruppo di interesse – il negazionismo globale per la lobby del petrolio, l’attacco all’Ue per le big tech, quello all’Onu per la lobby delle armi, e così via – che di certo non mancherà di ripagare il presidente con generosi finanziamenti e sostegno politico.
Ciascuno di questi approcci è efficace, eppure non esaustivo. Forse perché tutti spiegano Donald Trump, un individuo che nei vizi e nelle virtù è un nostro arci-contemporaneo, e non ha quindi in fondo nulla di realmente misterioso, e invece eludono la questione del suo smisurato potere di attrazione e mobilitazione, che ha indotto vere e proprie masse in tutto il mondo (dai vicini Milei e Bolsonaro a Meloni e Farage oltreoceano) a seguirlo oltre le colonne d’Ercole di un ordine civile e internazionale che aveva prosperato per ottant’anni e ancora adesso, in mezzo all’oceano in tempesta, a riconoscerlo come il solo comandante che può scongiurare il naufragio.
Nel discorso c’è un passaggio surreale, passato quasi sotto silenzio, nel quale il presidente si lamenta lungamente di aver perso, anni fa, nella sua capacità di costruttore, l’appalto per ristrutturare il Palazzo di Vetro dove ora sta parlando. Forse invece è proprio quella la dichiarazione politica più importante del tycoon: il mondo è come dico io, e dove non lo è intendo distruggerlo e ricostruirlo come piace a me.