Dopo aver preso atto che la strategia del terrore non ha fatto breccia, ora il governo temporeggia. Adesso però inizia il vero lavoro: quello alla radice
Le previsioni per lunedì 29 settembre: a sud delle Alpi tempo ben soleggiato, temperatura minima 9 gradi, massima 23. Clima ideale per una lunga passeggiata (per chi ha un debito da saldare) e per cominciare a ragionare su come mettere assieme i pezzi di un puzzle piuttosto complesso, scaturito dalle urne. I ticinesi ieri l’hanno detto chiaro e tondo – e non per questo privi di una qualche contraddizione di fondo –: servono maggiori sussidi per alleviare il drammatico peso dei premi di cassa malati, ma contemporaneamente va diminuito l’onere fiscale a carico dei contribuenti (che ci può anche stare per una buona parte di questi, ma non per tutti tutti. Ne riparleremo). Una duplice indicazione non semplice da applicare per un governo ulteriormente indebolito che, di primo acchito, ha intravisto nel risultato delle votazioni un chiaro segnale di “protesta ed esasperazione”. Per il Consiglio di Stato il malessere popolare riguarda il sistema Lamal in cui, da un lato, i premi continuano ad aumentare, mentre dall’altro il Cantone sarebbe confrontato con un margine di manovra piuttosto ridotto per agire in maniera efficace sul contenimento dei costi della salute.
Tutto vero, ma c’è di più. Anche se il governo non riesce o non lo vuol vedere, il voto di domenica rappresenta un clamoroso schiaffo in faccia per il Consiglio di Stato, in prima linea a sbandierare le virtù del doppio no, ma anche per la gran maggior parte della classe politica – con i municipi dei grandi centri e due partiti storici in testa –, così come per le principali corporazioni economiche e mediatiche. Nessuno di questi sembra più riuscire a intercettare quel che sta accadendo al di fuori della propria bolla (pur incontaminata che resti): molti ticinesi stanno facendo fatica e hanno bisogno di soluzioni immediate.
Tuttavia, dopo aver preso atto che la strategia del terrore non ha fatto breccia, ora il governo temporeggia: «Le iniziative saranno implementate quando verrà trovata l’intesa sul loro finanziamento», è stato ribadito nella conferenza stampa a tre (Gobbi, De Rosa e Vitta). Il che equivale a dire non prima del 2028, nella migliore delle ipotesi. Perché la risposta alla domanda (retorica) appare scontata: chi tra Consiglio di Stato e parlamento si assumerà la responsabilità di convergere verso una “quadratura del cerchio” nel bel mezzo della campagna elettorale prima delle Cantonali del ’27? Nessuno.
Di recente si è molto parlato del principio di realtà. A conti fatti il governo, questo governo, l’esecutivo dell’arrocco a legislatura in corso divenuto accrocchio avallato all’unanimità, raccoglie quel che ha seminato: credibilità zero. La fattura da mezzo miliardo di franchi che si porta a casa (più Efas, più i risparmi annunciati dalla Confederazione) non è altro che il fedele riflesso della sua incapacità. Ma il Consiglio di Stato non è da solo nella sua autoreferenzialità: la conseguente e verosimile paralisi parlamentare – con la destra a bloccare ogni eventuale aumento delle imposte, la sinistra cercando di contrastare i paventati tagli e i normali cittadini, i cosiddetti “sovrani”, a sperare che la loro volontà non venga manipolata o lasciata marcire in un cassetto – rischia di alimentare, in una sorta di circolo vizioso o virtuoso (a ognuno il suo), ulteriori dinamiche dirompenti.
Il temuto e famigerato baratro, insomma, andrebbe considerato per quello che è: un sintomo di inettitudine politica. Ed è ora – un lunedì che si preannuncia soleggiato – che inizia il vero lavoro, quello alla radice del problema: l’abnorme concentrazione della ricchezza, che va ridistribuita.