laR+ IL COMMENTO

Le Marche come l’Ohio: dove vanno loro va il Paese

La fragilità identitaria della sinistra italiana, per cui ogni colpo di vento elettorale è una bufera, rende un favore all’immobilismo di destra

In sintesi:
  • L’irresistibile tentazione di trasformare ogni voto regionale in un verdetto nazionale
  • Più citata che praticata la celebre chiosa di Bobbio: ‘Discutono del proprio destino senza capire che dipende dalla loro natura’
(Keystone)
1 ottobre 2025
|

Come è noto in Italia non vi è votazione, dalla dimensione condominiale in su, che non venga commentata come un decisivo test nazionale. Non fanno dunque eccezione le elezioni nelle Marche, amena regione del centro-Italia con due milioni scarsi di abitanti, celebre per gli strizzoli impepati e la madonna di Loreto. Trionfa la destra con 337’679 voti, all’incirca lo 0,005% della popolazione italiana, nella persona di Francesco Acquaroli, presidente uscente ed esponente moderato di Fratelli d’Italia, laddove con moderato si intende che fino a qualche anno fa organizzava con amici e compagni di partito cene nostalgiche della marcia su Roma, ma da quando l’hanno eletto si astiene, per lo meno in pubblico. Sconfitto con 286’209 voti (calcolare la percentuale sulla popolazione qui sarebbe bullismo) il centrosinistra di Matteo Ricci, ex sindaco di Pesaro che qualche anno fa ebbe il suo quarto d’ora di celebrità nazionale perché voleva far scrivere “Renzi” al posto di “PD” nel simbolo del PD e adesso invece passa per avatar di Elly Schlein, soprattutto appunto perché ha perso.

Dunque le Marche come si diceva un tempo dell’Ohio: dove vanno loro va il Paese. Severi analisti e trafelati dirigenti di partito intingono il pennino nel cortisolo e traggono bilanci esiziali. Il “campo largo” tra PD e Movimento 5 Stelle perde, dunque il PD dovrebbe disfarsi di Conte e consegnarsi per esempio a Carlo Calenda, che dal canto suo ha schivato la disfatta marchigiana con una mossa da maestro: non presentarsi. (Grande sostenitore di questa tesi è Carlo Calenda).

Analisti e dirigenti sono però in parte gli stessi che subito prima dell’estate erigevano a modello nazionale il trionfo del campo largo di Silvia Salis a Genova, con un numero di voti equivalente alla capienza di un grosso stadio, e che quindi avrebbero voluto candidare per direttissima la stessa neosindaca genovese a Palazzo Chigi, secondo un andamento esponenziale che probabilmente l’avrebbe vista in seguito ascendere al soglio pontificio e al Pallone d’Oro.

Ironie a parte, la questione è annosa e ha radici profonde nella politica italiana e in particolare per uno dei due schieramenti. Nata significativamente da un trauma semantico più che sostanziale – il leggendario “cambio di nome” del Partito Comunista Italiano in PDS – la sinistra italiana contemporanea è avviluppata da un trentennio in un’eterna crisi di identità nominale e geometrica, nell’illusione di trovare un’immagine più chiara di sé nello specchio delle alleanze e con il termometro elettorale perennemente infilato sotto l’ascella, a rendere i movimenti come minimo impacciati. Celeberrima la chiosa di Norberto Bobbio: “Discutono del proprio destino senza capire che dipende dalla loro natura. Risolvano il problema della loro natura, e avranno chiaro il proprio destino”, che però risulta più spesso solennemente citata che messa in pratica.

Colpisce come questa postura risulti complementare, se non addirittura funzionale, a quella dell’altra parte: più la sinistra tenta di eludere la propria incapacità di incidere e la propria drammatica crisi di cultura politica con una nevrotica parlantina autoriferita, condannandosi a una fragilità identitaria in cui ogni colpo di vento elettorale è bufera, più alla destra viene facile contrabbandare il proprio corrucciato immobilismo per fermezza, amministrando il consenso a dispetto di un’identica, se non più grave, povertà di reali orizzonti.

E comunque gli strizzoli impepati me li sono inventati, per dire le Marche.