L’esile appiglio a un piano di pace di stampo coloniale non lascia margini alla speranza di quei dannati della terra a cui manca pure la forza di urlare
Tutto secondo copione: arrembaggio, fermi e arresti con uso moderato della forza, senza resistenza da parte dei membri della Flotilla. Intervento rude ma niente drammi, come coralmente suggerito a Israele da un imbarazzato Occidente. Anche il Dfae, con una formulazione perlomeno maldestra, aveva chiesto a Tel Aviv che qualsiasi intervento “rispettasse i principi di proporzionalità e necessità”. Nessuna condanna dell’ennesima violazione flagrante del diritto internazionale, in questo caso in acque internazionali. Un po’ come se ci si limitasse a chiedere a dei ladri che svaligiano un’abitazione di non sciupare vasellame e mobilia.
La melliflua moderazione israeliana, sullo sfondo della città che brucia con i suoi abitanti intrappolati, prevede espulsione dei fermati e affondamento di alcune navi come da consumata sceneggiatura che associa cinismo e prevaricazione. La concomitanza di questa azione di forza con lo Yom Kippur è fortuita ma carica di significato. La più importante e sentita festa ebraica dalla forte carica mistica e introspettiva, invita alla riflessione sui propri peccati e all’espiazione. Lo ricorda in una sofferta lettera pubblica David Adler. Il giovane ebreo salito sulla Flotilla si chiede come è possibile commettere un genocidio in nome dell’interesse nazionale sionista, come si può adempiere al mandato etico e religioso di “curare il mondo quando lo Stato di Israele è così determinato a distruggerlo”. Tormento vivido, profondo che ci ricorda quello recente di David Grossman autore dello struggente “A un cerbiatto somiglia il mio amore” ispirato dalla morte di suo figlio: lo scrittore confessa di non aver mai voluto ricorrere al termine genocidio, ma che di fronte all’evidenza “non può più trattenersi dall’usarlo”. Salendo a bordo di una delle barche dirette a Gaza, Adler afferma di aver raccolto il retaggio morale del nonno, resistente parigino al nazismo, nella ricerca della giustizia che è al cuore della sua identità ebraica.
Di certo non priva di coraggio, avversata da governi, sbertucciata da lobby e da un’immancabile miriade di troll, l’operazione ‘Global Sumud Flotilla’ si iscrive nella lunga tradizione della disobbedienza civile. In questo senso va misurato il suo successo e il suo impatto. 70 anni fra, Rosa Parks venne ammanettata e incarcerata per aver preso posto nel settore di un bus riservato ai bianchi. Arrestata certo, ma vittoriosa per la Storia. Rosa, Antigone di una modernità che ci interpella continuamente sui valori proclamati e sulla realtà calpestata. Sul nostro schierarci con despoti e padreterni, o con i giusti, quelli che portano impresso il marchio dei vinti, o ancora evitando tutto questo, dandoci una bella pilatesca sciacquata di mani nel lavacro della nostra coscienza.
L’esile appiglio fornito da un piano di pace di stampo coloniale che spazza via il terrorista ma non l’altro contendente, il genocida, non lascia purtroppo molti margini alla speranza di quei dannati della terra a cui manca ormai pure la forza di urlare. Ma è proprio da lì, da Gaza, che – leggiamo in numerosi messaggi – giunge il più toccante grazie a chi salendo sulle barche e sfidando scetticismo, dubbi, avversità si è ricordato di loro e del valore della parola “giustizia”, indigesta a quanti rivendicano una superiorità morale, religiosa se non, a volte, razziale.