Un’utopia diventata possibile, ma non ancora per tutti. Capire la risposta immunitaria è fondamentale per terapie efficaci
Già William Coley, chirurgo americano vissuto a cavallo tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, aveva notato che alcuni tumori regredivano a seguito di infezioni acute.
Queste osservazioni facevano pensare che un’intensa attivazione della risposta infiammatoria e/o immunitaria potesse ostacolare lo sviluppo del tumore. Per questo Coley iniziò a somministrare ai pazienti un preparato di batteri. Sebbene il livello di documentazione e standardizzazione delle procedure non ci permetta di valutare in modo rigoroso l’efficacia delle sue terapie, esse rappresentano il primo tentativo di attivare il sistema immunitario contro il tumore. Nell’ultimo secolo, la comprensione del sistema immunitario ha subito un’accelerazione enorme. Si è capito come un certo tipo di cellule (i linfociti T citotossici) riconosca ed elimini le cellule del nostro corpo che contengono materiale “improprio”, ad esempio quelle infettate da un virus. Inoltre, negli anni Novanta, si è scoperta l’esistenza di meccanismi che “frenano” le cellule T del sistema immunitario, evitando reazioni troppo forti che potrebbero danneggiare le cellule sane.
Tali meccanismi sono tuttavia sfruttati anche dai tumori per aggirare la difesa da parte delle cellule T citotossiche. Infatti, i linfociti T citotossici avrebbero la capacità di riconoscere il materiale mutato – e quindi “improprio” – tipico delle cellule cancerogene e di eliminarle ma, purtroppo, anche queste ultime sfruttano proprio gli stessi “freni molecolari” per evitare di essere eliminate. Queste scoperte sono state premiate con il Nobel per la Fisiologia e la Medicina nel 2018 attribuito ai ricercatori James Allison, statunitense, e Tasuku Honjo, giapponese.
A entrare in gioco sono i recettori dei linfociti T (TCR) e le molecole di presentazione antigenica. Queste molecole sono prodotte dalle nostre cellule allo scopo di presentarne il contenuto (frammenti di proteine della cellula chiamati antigeni) ai linfociti T citotossici (vedi illustrazione). Quando il recettore del linfocita T citotossico riconosce che il contenuto della cellula è “improprio”, il linfocita si attiva e distrugge le cellule infettate o tumorali.
Nel caso delle cellule tumorali, il processo di riconoscimento dipende – oltre che dall’interferenza dei “freni molecolari” menzionati sopra – anche dalla capacità di presentazione antigenica che è spesso alterata nelle cellule tumorali. Da anni, il gruppo di Greta Guarda, attivo all’Istituto di Ricerca in Biomedicina di Bellinzona, studia i meccanismi che regolano la presentazione antigenica per poter sfruttare al meglio il potenziale dei linfociti T. In quest’ambito ha contribuito a caratterizzare un meccanismo nuovo che viene spesso soppresso nelle cellule tumorali per sfuggire ai linfociti T citotossici.
Il processo di freno molecolare
Lo sviluppo di conoscenze di biologia molecolare e biotecnologiche ha permesso la produzione di un nuovo “arsenale” di terapie (anticorpi monoclonali) in grado di “disinnescare” questi meccanismi di “freno”, permettendo l’attivazione dei linfociti T contro le cellule tumorali (vedi illustrazione).
Nel 2011 è stato approvato negli Stati Uniti il primo anticorpo (che blocca il “freno” CTLA-4) per il trattamento del melanoma metastatico avanzato. Per la prima volta viene dimostrato come un farmaco che fa leva sul sistema immunitario prolunghi in modo significativo la sopravvivenza di una parte dei pazienti. Successivamente sono stati approvati anticorpi contro un secondo meccanismo di “freno” conosciuto con il nome di “PD-1”.
Inizialmente usati per il melanoma, questi anticorpi sono oggi impiegati anche per carcinomi polmonari, per il carcinoma renale e altri tumori. Guardando alla nostra realtà, presso l’Istituto Oncologico della Svizzera italiana (IOSI) dell’Ente Ospedaliero Cantonale, questi approcci sono utilizzati da diversi anni e in molteplici tipi di tumore. In particolare, hanno migliorato significativamente la prognosi dei pazienti con melanoma e tumore polmonare. Lo IOSI è stato coinvolto in studi per lo sviluppo di queste terapie immunitarie e, più recentemente, sono stati condotti e sono tuttora in corso diversi studi clinici con nuove immunoterapie che rappresentano un’importante opportunità offerta ai pazienti.
Il prof. Geiger e la prof.ssa Guarda
Sebbene questi anticorpi abbiano nettamente migliorato la prognosi di molti pazienti, svariati aspetti restano da migliorare. Anzitutto, solo una parte dei malati (si stima il 20-30%) risponde a queste terapie in modo durevole. Proprio per questo i ricercatori stanno lavorando per individuare altri modi di riattivare i linfociti T citotossici.
Ad esempio, il team di ricerca guidato da Roger Geiger, attivo all’Istituto di Ricerca in Biomedicina di Bellinzona, studia come i tumori sopprimano le cellule immunitarie e utilizza screening genetici per scoprire nuovi “freni molecolari” che i tumori sfruttano per inibire l’attività dei linfociti T citotossici. Questi mediatori potrebbero, in futuro, essere bloccati da anticorpi specifici, offrendo un ulteriore strumento per aumentare l’efficacia delle immunoterapie. Ma ci sono anche altri aspetti da migliorare. In alcuni pazienti il sistema immunitario risponde all’immunoterapia attaccando anche le cellule sane, con conseguenze che vanno dalla dermatite fino a complicanze serie che richiedono un’accurata gestione clinica. Va inoltre sottolineato che gli anticorpi monoclonali hanno costi di produzione più onerosi rispetto ad altri farmaci, e questo non solo fa lievitare i costi sanitari, ma limita anche l’accesso dei Paesi meno ricchi a questi medicamenti. Per questi motivi è importante che si continuino a studiare i meccanismi che regolano la risposta immunitaria al tumore. Che è quanto sta facendo anche il gruppo di Greta Guarda che studia come si propaghino gli effetti “frenanti” di PD-1 nella cellula T citotossica. Infatti, sebbene PD-1 sia un target clinico i cui effetti sulle cellule T citotossiche sono ben noti, i meccanismi molecolari che li causano sono ancora oggi oggetto di dibattito; definire il loro reale funzionamento potrebbe quindi consentire alla ricerca scientifica di fare ulteriori progressi e capire perché alcuni pazienti rispondano troppo o troppo poco alle immunoterapie che interferiscono con questo “freno molecolare”.
Da Coley a oggi, l’immunoterapia in ambito oncologico ha avuto un’evoluzione straordinaria, migliorando la sopravvivenza e la qualità di vita di molti pazienti. Allo stesso tempo rimangono sfide aperte per i pazienti che non rispondono alle cure, gli effetti collaterali, nonché i costi elevati.
Identificare i meccanismi che regolano la presentazione antigenica e ampliare le nostre conoscenze dei “freni molecolari” potrebbe, dunque, da una parte contribuire a capire il perché delle diverse risposte cliniche nei pazienti e, dall’altra, a offrire delle possibilità ulteriori e complementari di intervento nella lotta ai tumori.
In collaborazione con l’Istituto di Ricerca in Biomedicina (IRB) di Bellinzona, affiliato all’USI, nel suo 25º anniversario