La romantica storia della Dollop Racing, il team grigionese sempre ultimo (o quasi) in un’epoca in cui c’era ancora spazio per le fantasticherie
Lawrence Stroll è arrivato a comprare un team pur di far correre il figlio Lance in Formula 1. In passato, invece, c’è stato chi ha costruito da zero una scuderia solo per poterci correre e coronare così il proprio sogno di entrare nei paddock dalla porta principale. È la storia di Jean-Pierre Frey, svizzero originario di Medel, nella Surselva, che proprio quest’anno ha soffiato le settanta candeline. È la storia di un altro motorsport, quello degli anni Ottanta, dove ancora resistevano artigiani e amatori, piccole sacche di indipendenza mosse da una passione sfrenata e che non accettavano di piegarsi a un mondo sempre più nelle mani dei grandi costruttori. Stava finendo un’era, o forse si era già conclusa, ma persone come Frey si rifiutavano di prenderne atto.
Sono passati quarant’anni dall’avventura del suo team, la Dollop Racing, in Formula 3000 (l’equivalente della odierna Formula 2), ma guardando l’odierna evoluzione ipertecnologica, turbocapitalista, nonché vetrina esclusiva dei grandi marchi automobilistici internazionali, sembrano trascorse ere geologiche. Eppure un posticino nella storia delle corse Frey è riuscito a ritagliarselo, e pazienza se ciò è avvenuto entrando dalla porta sbagliata, ovvero quella di primati negativi quali il pilota e il team – risultati alla mano – meno competitivi di sempre.
Dollop era il nome dell’agenzia immobiliare di Frey. Nonostante una gioventù trascorsa in bicicletta, erano i motori e non il ciclismo la sua vera passione, tanto da arrivare a lasciare il lavoro prima dei trent’anni per correre in Formula Ford 2000, Formula 3 e nel Campionato mondiale Prototipi. Frey apparteneva alla razza in estinzione dei gentleman-driver, nome inizialmente coniato alla fine del XIX secolo per gli aristocratici appassionati di motori che preferivano ‘sporcarsi le mani’ guidando personalmente l’autovettura di loro proprietà, senza affidarsi a uno chauffeur, e che in seguito è diventato un sinonimo di pilota non professionista. Categoria nella quale Frey rientrava in tutto e per tutto, dal momento che, oltre alla mancata formazione sportiva (non aveva nemmeno mai corso sui kart), conduceva una vita priva di rinunce. A lui piaceva salire in macchina, dare gas e correre. Soprattutto, voleva farlo avvicinandosi il più possibile all’élite, ovvero la Formula Uno. Nel 1985 la Fia aveva sostituito il campionato di Formula 2, in crisi per gli alti costi e lo scarso interesse, con la Formula 3000, così chiamata per l’aumento di cilindrata dei motori a 3500 circa, con fornitura di vecchi Cosworth Dfv dismessi dalla Formula Uno in quanto resi obsoleti a causa dello strapotere dei motori turbo. Per Frey l’occasione di iscriversi all’anticamera della F1 è ghiotta. Acquista una March 85B, prende un garage a Lugano e fonda la Dollop Racing. Al Mondiale marche aveva conosciuto un giovane ingegnere, Antonio Ferrari (nessuna parentela con la famiglia di Enzo), e gli affida la direzione del team. L’obiettivo è di essere pronti per la seconda edizione del campionato, quella del 1986.
La Dollop Racing partecipa a due edizioni della F3000, la 1986 e la 1987. Rispetto a quella inaugurale, si tratta di due annate piene di piloti di alto livello e congestionate dall’elevato numero di costruttori, tanto da rendere necessarie le qualifiche per la gara. In due anni la scuderia ci prova 31 volte in 19 gare e riesce a entrare in griglia in una sola occasione. Un primato negativo assoluto. La monoposto è lenta, nelle curve veloci arriva a pagare anche 20-25 chilometri di velocità in meno. Ci vorrebbe un mezzo miracolo, che ovviamente non è nelle corde di un pilota amatoriale come Frey, i cui migliori giri sono regolarmente a 5-6 secondi sotto il tempo di qualifica. Il suo miglior risultato è a Imola nel 1986, quando finisce 34esimo su 37 partecipanti, ma solo perché uno non era partito, il secondo guidava una monoposto vecchia di sette anni e il terzo era il suo compagno di squadra Aldo Bertuzzi.
Poche settimane dopo però l’impresa arriva, e porta la firma di Marcel Tarrès, specialista delle corse in salita. Siamo sul circuito cittadino di Birmingham e il francese gira tra i paddock con diecimila sterline in una busta. Vuole una monoposto per correre. L’organizzatore del Gran premio lo mette in contatto con la Dollop e l’affare si conclude. Nonostante la pista bagnata, Tarrès guida come una furia, piazza ottimi tempi e centra la 25esima posizione. Frey invece finisce ultimo, a sei secondi dal compagno. Anni dopo, alla rivista italiana Autosprint Antonio Ferrari ha ricordato quel momento così: «In squadra ci guardiamo sgomenti... Io stesso ho una botta d’ansia. Sai, noi, avvezzi alle performance di Frey, ormai ci eravamo abituati a tornare a casa con un giorno d’anticipo. Io facevo i biglietti per tutti e prevedevo la tratta di ritorno ventiquattro ore prima della gara. Ma vedendo come Tarrès stava girando nel weekend di Birmingham, malgrado la pioggia e il circuito ostico, mi rendo subito conto che dovrò vedere i sorci verdi per posticipare di un giorno il rientro di tutti noi, rifacendo i biglietti».
La prima e unica partecipazione della Dollop Racing a una gara di F 3000 si conclude dopo appena due giri per un contatto tra Tarrès e Tim Davies che rompe il musetto della monoposto svizzera. Al box però sono tutti contenti, a eccezione di Frey. Quello che aveva sempre temuto è diventato realtà: tra le mille difficoltà nelle quali si barcamena il team, il problema più grande è lui, finito in un gioco di livello troppo alto per le sue capacità. Tarrès aveva dimostrato come un ottimo manico, in determinate condizioni, poteva regalare sprazzi di gioia anche a un team raffazzonato come il suo.
Ma la Dollop rimane Jean-Pierre Frey e non può esistere senza di lui, che anche l’anno successivo, dopo aver spostato la sede dalla Svizzera in Italia, a Cologno Monzese, si ripresenta e fallisce di nuovo. Sia lui, sia i suoi compagni occasionali Urs Dudler, Guido Daccò, Benoit Morand. A Donington in pista sono addirittura tre le monoposto rosse (mentre l’anno precedente il colore principale era bianco e blu, o talvolta il rosso e il blu scuro), ma al tardo pomeriggio di sabato è già tutto finito.
Frey va avanti quasi fino alla fine, gettando la spugna solo prima degli ultimi due appuntamenti, al Bugatti Circuit di Le Mans e al Jarama in Spagna. Per capire le ragioni di una tale ostinazione ci appoggiamo nuovamente a Ferrari. «Semplice: a lui piaceva tantissimo, passati i trent’anni, l’idea di frequentare quell’ambiente, di essere arrivato in qualche modo all’anticamera della F1, alla tiratissima F3000 Internazionale. Anche se il suo passo non era tale da permettergli di partire, in quella F3000 che era ormai a tutti gli effetti una categoria per professionisti. Il biennio di passione e sofferenza del team Dollop in formula cadetta ha dimostrato che alla fine degli anni Ottanta il tempo degli amatori privi di sponsor che si divertono al top è finito per sempre».
Non finisce invece la carriera di pilota di Frey, né il suo sodalizio con Ferrari. Il grigionese torna in Endurance e con la Dollop Racing nel 1998 partecipa alla 24 Ore di Le Mans a bordo di una Lancia Lc2 con motore Ferrari, ritirandosi al giro 255 per la rottura del motore. Poi vola oltre oceano ed entra nel mondo Cart, ovvero la nonna della moderna IndyCar Series. Per lui si tratta di una grossa iniezione di fiducia perché, dopo il biennio terribile in F3000, approda nella massima serie americana. Dove oltretutto non esiste la tagliola delle qualifiche, tranne negli eventi particolari come la Indy 500 o sui circuiti ovali, e questo aiuta Frey, che a bordo di una Lola Cosworth del team Dick Simon sponsorizzata dalle sigarette West (futuro sponsor McLaren in Formula Uno tra il 1997 e il 2005) e dal produttore di miniature Bburago fornisce prestazioni dignitose.
L’anno successivo decide di mettersi in proprio, senza però resuscitare il marchio Dollop: fonda la Euromotorsport e porta con sé Antonio Ferrari. Frey viene squalificato sull’ovale di Phoenix dai commissari di gara per eccessiva lentezza, ricevendo comunque un indennizzo di poco meno di tremila dollari, il premio più basso mai assegnato a un pilota nella storia del campionato Cart. Alla 500 Miglia di Indianapolis invece non viene ammesso in quanto reputato pilota non esperto.
Poi è costretto a rientrare temporaneamente in Patria, convocato per accertamenti dall’Ufficio tassazioni, e da quel momento si consuma lo strappo con Ferrari, che diviene proprietario della Euromotorsport. I due finiranno in tribunale, con Frey che accuserà l’italiano di aver dirottato un’ingente quantità di denaro dal loro conto cointestato presso Bank One, nello Stato dell’Indiana, verso il suo conto privato in Italia presso la Banca Nazionale del Lavoro. Perderà la causa. Frey riesce comunque a correre ancora una gara nella Cart, sempre nel 1989, a Portland per il team Bettenhausen (futuro Hvm Racing), partendo dall’ultima posizione e finendo quindicesimo: all’ultimo atto della sua carriera nelle corse, il gentleman-driver grigionese chiude con il suo miglior piazzamento in gara di sempre.