laR+ Basket

Jack Twyman e Maurice Stokes, storia di un’autentica amicizia

Moriva 55 anni fa uno dei più grandi e promettenti giocatori della Nba, dapprima stella assoluta e poi costretto all’immobilità da un incidente di gioco

7 aprile 2025
|

Cinquantacinque anni fa, il 36enne Maurice Stokes fu stroncato da un infarto. Era una dozzina d’anni che il ragazzo – ex stella assoluta del basket – si trovava su una sedia a rotelle. A inchiodarcelo era stato un incidente occorsogli nell’ultima partita della regular season del 1958, vinta per 96-89 dai suoi Cincinnati Royals (nonni degli attuali Sacramento Kings) sui Minneapolis Lakers (che poi si sarebbero trasferiti a Los Angeles). Maurice – detto Mo –, sbilanciato da un avversario a cui contendeva un rimbalzo, era caduto battendo il capo sul parquet e aveva perso i sensi.

Rianimato coi sali dal massaggiatore della squadra, si era brevemente accomodato in panchina, ma presto aveva chiesto e (purtroppo, come vedremo) ottenuto di tornare in campo, dove chiuse il match con 24 punti e 15 rimbalzi, cifre eccellenti ma per lui del tutto abituali, visto che era uno dei due o tre migliori giocatori di tutta la Nba, il più importante campionato di basket del mondo. A rendere il ragazzo ancor più speciale c’era il colore della sua pelle, scura come quella dei suoi antenati africani, tratto somatico che negli Usa degli anni Cinquanta rappresentava un handicap pesantissimo. Lo sport però, per fortuna, si muoveva a velocità doppia rispetto ad altri ambiti della società, e da qualche tempo si mostrava maggiormente propenso all’abbattimento delle barriere che – non solo nel Sud segregazionista – dividevano la popolazione americana in base alla pigmentazione del derma.

Tempi duri

Nato nel 1933 a Pittsburgh, la città delle acciaierie, Mo Stokes era figlio di un operaio siderurgico e di una domestica nelle case della borghesia bianca. Alto e muscoloso già da ragazzino, si diede presto al basket, disciplina in cui alla Westinghouse High School – frequentata per il 95% da alunni afroamericani – eccelle al punto che, conseguito il diploma, riesce a ottenere una borsa di studio per l’università, cioè qualcosa che all’epoca succedeva assai di rado, se eri nero. A garantire a Stokes un’educazione accademica – in cambio delle sue strabilianti prestazioni in campo – è un piccolo college privato e cattolico di Loretto, Pennsylvania. Maurice è l’unico nero della scuola, ed è pure il solo protestante: condizioni che potrebbero scoraggiare chiunque, ma non lui, che ha un carattere determinato ma aperto, specie nelle relazioni sociali. Sa farsi voler bene da tutti e, grazie alle sue capacità sportive, in poche settimane diventa simbolo e vanto dell’ateneo. Nel suo quadriennio alla Saint Francis – scuola che prende il nome dal frate di Assisi –, sul parquet il ragazzo stabilisce un’infinità di record e riesce a inserire la sua formazione fra le migliori otto dell’intero Paese, e al Mit del 1955 – prestigiosissimo torneo universitario – incanta coi suoi 43 punti in semifinale i quindicimila spettatori del Madison Square Garden di New York, venendo eletto Mvp della manifestazione benché la sua squadra chiuda la kermesse solo al quarto posto, roba mai vista né prima né dopo.

Intelligenza e tecnica sopraffina

Due metri per 120 chili, Stokes possiede intelligenza e tecnica sopraffina che gli consentono – 15 anni prima di Magic Johnson – di giocare in ogni ruolo: porta palla e chiama gli schemi, penetra, tira da fuori, cattura rimbalzi in attacco e in difesa e sa servire i compagni alla perfezione. Normale, dunque, che al draft 1955 gli occhi di scout e dirigenti Nba siano tutti puntati su di lui, che infatti viene chiamato al primo giro, seconda scelta assoluta, dai Rochester Royals (Stato di New York), franchigia che la stessa estate recluta un altro ragazzo della Pennsylvania – Jack Twyman –, ottimo tiratore bianco che avrà un ruolo centrale nella vita di Stokes. Mo rifiuta le lusinghe degli Harlem Globetrotters – squadra che paga benissimo e che gira il mondo giocando partite di esibizione – e approda dunque nella Nba, di cui subito diviene uno dei giocatori più significativi: chiude la prima partita (contro i NY Knicks) con 32 punti, 20 rimbalzi e 8 assist, mentre qualche settimana più tardi – contro Syracuse – mette insieme 26 punti, 38 rimbalzi e 12 passaggi decisivi: è una delle primissime triple doppie della storia della lega. E, al termine di quella prima stagione da Pro – quando i Royals lasciano Rochester per accasarsi a Cincinnati (Ohio) – viene eletto Rookie of the year (miglior esordiente), riconoscimento di cui nessun afroamericano era mai stato insignito: Stokes fu per il basket – e per tutti i coloured d’America – ciò che il leggendario Jackie Robinson fu nel baseball, una pietra miliare nel processo di emancipazione dei discendenti degli schiavi.

Quanta imprudenza

La felice carriera Nba del nuovo astro – ogni volta selezionato per l’All Star Game – durerà però soltanto tre anni, perché ogni favola che si rispetti porta con sé un risvolto tragico. E qui torniamo alla primavera del 1958, quando al termine della regular season – chiusa al primo posto fra i rimbalzisti, al secondo fra i distributori di assist e al terzo fra i cannonieri – Maurice, come detto, malgrado perda conoscenza dopo aver battuto la testa, viene rimandato in campo. Sarebbe stato meglio invece portarlo in ospedale per farlo visitare come si fa oggi, ma quelli erano altri tempi: diversa era la sensibilità della gente, e ancora molto approssimative erano le conoscenze mediche.

Fatto sta che, pochi giorni dopo, i Royals volano a Detroit per iniziare i playoff, e Mo – malgrado si senta stanco e rallentato nei movimenti – viene regolarmente schierato, anche perché il pubblico ha pagato per vederlo all’opera, e gli spettatori non vanno delusi. I padroni di casa vincono facilmente gara 1, anche perché Maurice non riesce a esprimere il proprio potenziale: totalizza infatti solo 12 punti e 15 rimbalzi, per i suoi standard una vera miseria. Prima del volo di ritorno, c’è tempo per andare a farsi una bistecca e un paio di birre, e sarà proprio a una cena mal digerita che tutti attribuiscono la colpa del malessere di Stokes, che inizia a vomitare su uno dei taxi con cui la squadra raggiunge l’aeroporto.

A bordo dell’apparecchio – sul quale Mo viene issato dai compagni – le cose, invece di migliorare, peggiorano: torna a dare di stomaco, ha dolori ovunque e febbre a 40, è sudato che pare caduto in piscina, dice che si sente morire e vuole essere battezzato. Durante gli anni universitari si è molto avvicinato alla Chiesa di Roma e da tempo medita di convertirsi. La procedura prevede che, se la vita della persona è in pericolo, il sacramento possa venirle impartito anche da un laico, ed è dunque il suo compagno di squadra Richie Regan a fare di Stokes un cattolico. Dopodiché, Mo cade in un coma da cui si risveglierà solo qualche giorno più tardi – dopo aver ricevuto pure l’estrema unzione – e completamente paralizzato dal collo in giù: sente e capisce tutto ciò che gli sta attorno, ma non può comunicare in alcun modo. Non è nemmeno più in grado di deglutire, quindi viene nutrito tramite flebo, mentre affinché possa respirare gli viene praticata una tracheotomia. Altro che indigestione: il trauma subito alcuni giorni prima – colpevolmente sottovalutato e non indagato – gli ha provocato danni gravissimi al cervello.

Abbandonato a se stesso

Il mondo del basket è scioccato, ma la solidarietà della Nba e dei Royals si limita ad accorate dichiarazioni costernate: soldi, meno di zero, malgrado le cure di cui Stokes necessita risultino carissime. E nemmeno da autorità e istituzioni civili giungono segnali incoraggianti: lo sport non è considerato un lavoro come gli altri, e dunque il giocatore non riceverà alcun indennizzo. Mo non ha sottoscritto assicurazioni private, e i 9’000 dollari che è riuscito a risparmiare nel corso dei suoi tre anni di professionismo si esauriscono ben presto a causa dei costi ospedalieri e delle spese sostenute per consentire alla madre di lasciare Pittsburgh per stare vicino al figlio a Cincinnati.

Il solo a dare una mano a Maurice è il già citato Jack Twyman, l’unico fra i compagni di squadra a non abbandonare il collega sfortunato: non solo va a trovarlo in clinica ogni giorno, ma – vista la quasi totale indigenza dei genitori di Mo – fa in modo di diventare suo tutore legale e si accolla tutte le fatture relative a degenza e riabilitazione. Nemmeno Jack, ad ogni modo, naviga nell’oro: i cestisti all’epoca non guadagnavano neanche un millesimo di ciò che intascano oggi, e anche per lui la presa a carico di Stokes diventa insostenibile. E a nulla servono i 40 dollari al mese che, tramite azione legale, riesce infine a ottenere dallo Stato dell’Ohio: equivalevano a circa 800 dollari odierni, e bastavano sì e no a coprire un solo giorno di cure.

L’idea risolutiva

Twyman, allora, si inventa un modo per raccogliere soldi che farà scuola: grazie a un amico proprietario di alberghi frequentati dalla comunità ebraica nelle Catskill Mountains (New York), riesce a organizzare una partita di beneficenza fra stelle della Nba – per allietare i turisti in ferie – il cui ricavato sarà totalmente devoluto alla causa di Mo. Twyman teme però che, visto il periodo di vacanza, ben pochi colleghi accetteranno di attraversare il Paese per mettersi a giocare gratis, rischiando oltretutto di infortunarsi. Invece, l’iniziativa raccoglie addirittura una sessantina di adesioni, tanto che, dal secondo anno, le partite in cartellone saranno ben due nella stessa serata, e così l’assistenza medica del campione sfortunato è assicurata per tutto il tempo (non moltissimo, per la verità) che gli resta da vivere. Maurice infatti, come premesso, fu tradito dopo una dozzina d’anni da un cuore chiamato a lavorare il doppio, e dunque oltremodo affaticato.

Grazie alle cure garantite, Mo riuscì a compiere pochi ma significativi progressi riabilitativi: tornò a deglutire, riprese ad articolare parole in modo abbastanza comprensibile e riacquistò parzialmente l’uso di una mano. Sensibile alle dinamiche del mondo e della sua epoca, Stokes seguì e sostenne negli anni Sessanta le battaglie razziali e per i diritti civili, da quelle più soft di Martin Luther King a quelle più incisive condotte da Malcolm X o dalle Pantere Nere. Entrambi inseriti nella Hall of Fame del basket mondiale, alla memoria di Jack Twyman e Maurice Stokes la Nba ha dato nel 2013 il loro nome al riconoscimento che, ogni anno, premia come Compagno di squadra ideale il giocatore della lega che più si distingue per dedizione e coinvolgimento a favore del proprio team.