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Punizione per gli avversari? Nessun problema, la batto io!

Moriva 10 anni fa Mwepu Ilunga, calciatore dello Zaire, che giocò i Mondiali del '74 terrorizzato da Mobutu, despota che teneva in ostaggio l’intero Paese

In sintesi:
  • Protagonista involontario di un episodio tragicomico, il calciatore dello Zaire raccontò che i giocatori temevano vendette da parte del dittatore a causa delle loro negative prestazioni in campo
  • Mobutu, salito al potere con un colpo di stato, regnò in modo spietato per tre decenni, eliminando fisicamente i rivali politici e svuotando per uso personale le casse del Paese
8 maggio 2025
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Gelsenkirchen, 22 giugno 1974, ultima partita della prima fase del Gruppo 2. A sfidarsi sono il peggior Brasile mai visto nella storia dei Mondiali e lo Zaire, primo Paese dell’Africa subsahariana a disputare la fase finale del più importante torneo per nazioni.

I sudamericani, che nelle prime due gare hanno raccolto due miseri 0-0 contro Jugoslavia e Scozia, se vogliono superare il turno sono costretti non soltanto a vincere, ma pure a sperare che i britannici non riescano a battere i plavi nello scontro diretto che va in scena alla stessa ora a Francoforte. Per fortuna dei verdeoro, tutto sta andando per il meglio: a cinque minuti dal termine sono in vantaggio 3-0, e le radioline a transistor portate in panchina dicono che, nell’altra gara, gli scozzesi sono sotto 1-0.

Una gag strepitosa

Alla ricerca del quarto gol, Mirandinha viene atterrato un paio di metri prima della lunetta da Kilasu e Bwanga. Il rumeno Rainea decreta il fallo e ordina agli africani di formare la barriera sulla linea dei 16 metri, affinché la distanza venga rispettata. Joseph Mwepu Ilunga si piazza all’estremità destra del muro. Pare che a battere la punizione sarà Rivelino – strepitosa mezzala – che prende una rincorsa lunghissima per far partire una delle sue leggendarie cannonate mancine.

Quando l’arbitro fischia, però, a calciare il pallone non è il brasiliano: contro ogni logica – e soprattutto contro il regolamento – a colpire la sfera con una portentosa puntinaccia da oratorio è proprio Joseph Mwepu Ilunga, che fra l’incredulità generale ha abbandonato la barriera con uno scatto fulmineo ed è andato a sparare il pallone a tre chilometri di distanza. Rivelino fa appena in tempo a togliere i baffi dalla traiettoria, per evitare di venire tramortito dall’ogiva.

I brasiliani in campo, i trentaseimila sugli spalti e qualche decina di milioni di telespettatori sparsi per il mondo si sganasciano dal ridere, piegati in due dalla scena più surreale mai vista nella storia del calcio. A Rainea, pure lui scioccato da quanto gli è appena toccato di vedere, non resta che recuperare la sfera, riposizionarla sul punto di battuta e ammonire l’autore di quella performance da teatro dell’assurdo, che si mostra sinceramente stupito e contrariato per la sanzione comminatagli. So bene che, raccontata così, pare una scena scritta da Mel Brooks, ma vi assicuro che non mi sono inventato nulla: basta andare su YouTube per averne sacrosanta conferma.

Regole sconosciute?

Per carità, di calciatori o allenatori che non conoscono a fondo il regolamento ce ne sono molti anche oggi, ma di solito è gente poco in chiaro su sottigliezze, codicilli e cavilli di importanza assai relativa. Quella volta a Gelsenkirchen, invece, a venir disattesa fu una regola davvero basilare. Erano davvero altri tempi, un’epoca in cui un giocatore che aveva da poco conquistato la Coppa d’Africa poteva permettersi di presentarsi alla massima competizione planetaria ignorando l’abc del gioco del pallone.

Diversi anni dopo, per giustificare quella sua brutta figura in mondovisione, il buon Joseph Mwepu Ilunga raccontò che, in realtà, lui il regolamento lo conosceva benissimo: a spingerlo a calciare la punizione che avrebbero invece dovuto battere i suoi avversari era stata la paura. Disse che se lo Zaire avesse perso anche quella partita – dopo lo 0-2 subito dalla Scozia di Dalglish, Jordan, Billy Bremner, Jimmy Johnstone e Denis Law e il fragoroso 0-9 patito al cospetto della Jugoslavia di Dzajic, Surjak e Oblak – il presidente Mobutu, una volta rimpatriati, avrebbe messo a morte tutti i giocatori.

La scusa, però, non regge: prima di tutto perché la gag si consumò quando si era già all’85’ e gli africani erano ormai sotto 3-0, dunque un po’ tardi per pensare di ribaltare il risultato; e poi perché lo stesso Ct dello Zaire, lo jugoslavo Blagoje Vidinic, ammise in seguito di avere in effetti dovuto, nelle settimane precedenti il Mondiale, spiegare da zero a un paio di suoi atleti come funzionava la norma del fuorigioco, segno che nell’ambiente qualche lacuna in materia di regolamento c’era davvero.

Uno spietato dittatore

Ciò non toglie, ad ogni modo, che il Paese dell’Africa equatoriale a quei tempi davvero era ostaggio dei capricci e della spietatezza di uno dei peggiori dittatori mai saliti al potere nella storia dell’intero continente, e che – se la gente ignorava molte cose, e non solo le regole del calcio – la colpa era proprio dei politici e delle canaglie della sua stessa risma.

Sostenuto da Belgio e Cia, Mobutu era salito al potere nei primi anni Sessanta con un colpo di stato ai danni del democraticamente eletto Patrice Lumumba, che venne bellamente assassinato, fatto sbranare da felini di grossa taglia, come si mormora.

Nato Joseph-Désiré Mobutu, il tiranno – oltre a perpetrare le peggiori nefandezze – provvide a cambiare nome a ogni cosa: la Repubblica Democratica del Congo divenne appunto Zaire, mentre per sé stesso scelse la sobria denominazione di Mobutu Sese Seko Koko Ngbendu Wa Zabanga, vale a dire Mobutu il guerriero che va di vittoria in vittoria senza che alcuno possa fermarlo. Idem per le città: Leopoldville divenne Kinshasa, Stanleyville mutò in Kisangani, mentre Elisabethville assunse il nome di Lubumbashi, senza dimenticare ovviamente l’ennesimo omaggio che il despota si auto-attribuì: il Lago Alberto fu infatti ribattezzato Lago Mobuto Sese Seko.

Sulla stessa onda, ai giocatori della Nazionale di pallone – che si chiamavano Pierre, Jacques, Michel e Dominic – impose di tramutarsi in Mafu, Mambwene, Mantantu, o appunto Ilunga, come nel caso dell’eroe tragico di Gelsenkirchen, di cui narriamo la storia perché proprio oggi cade il decimo anniversario della sua scomparsa. Eloquente fu pure la mossa di sostituire, sulle maglie da gioco, l’emblema del leone – animale dall’autocrate ritenuto promiscuo, sozzo e immondo – con quello del leopardo, bestia fiera considerata invece nobile, fedele e coraggiosa.

Sport e populismo

Parlando di sport usato a fini propagandistici, il capolavoro populista di Mobutu, realizzato solo pochi mesi dopo la fallimentare spedizione al Mondiale tedesco occidentale del 1974, fu comunque l’allestimento, allo Stadio Nazionale Tata Raphael nella capitale, dell’incontro di boxe più celebre della storia, vale a dire Rumble in the jungle, la sfida per la corona dei pesi massimi fra Muhammad Ali e George Foreman: il vecchio trucco del panem et circenses, insomma.

Mobutu il cleptocrata (si stima abbia intascato oltre 10 miliardi di dollari prelevandoli direttamente dalle casse statali), in realtà, altro non fece che regnare per oltre trent’anni facendo semplicemente sparire i rivali politici e opprimendo oltre ogni limite il proprio popolo, affamandolo e soprattutto privandolo della libertà e delle fondamentali opportunità di emancipazione.

E vi riuscì, al pari di numerosi suoi omologhi, facendo leva sulla sacrosanta – ma allo stesso tempo estremamente ruffiana – esca del nazionalismo e della riappropriazione culturale tanto cavalcata agli albori della decolonizzazione. E lo fece con la colpevole connivenza – se non addirittura l’evidente complicità – dei governi delle stesse nazioni che la colonizzazione l’avevano invece per secoli perpetrata, ricavandone enormi benefici economici e la (relativa) stabilità politica che quegli stessi privilegi avrebbero continuato a garantire per lungo tempo.