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Sarina Wiegman, domatrice delle Leonesse

Domenica ha regalato il secondo titolo europeo all'Inghilterra, portata al successo in 34 delle 48 partite sotto la sua gestione

Con il trofeo vinto domenica a Basilea
(Keystone)
30 luglio 2025
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Alla fine, in fondo ci arriva sempre lei. Parliamo di Sarina Wiegman, l’allenatrice olandese che domenica ha festeggiato la vittoria del suo terzo Europeo femminile consecutivo, il secondo alla guida dell’Inghilterra, mentre il primo lo conquistò nel 2017 con l’Olanda. Nel mezzo anche due finali Mondiali, questa volta – come da atavica tradizione di tutto il calcio olandese – perse, nel primo caso contro gli Stati Uniti, nel secondo contro la Spagna, quest’ultima proprio la nazionale battuta dalle inglesi ai rigori nell’ultimo atto del Sankt Jakob Park nell’Europeo organizzato in terra svizzera. In totale fanno cinque finali in altrettanti tornei, con tre vittorie. Numeri pesanti, capaci di saldare il risultato sportivo alla crescita di un movimento che in una decina di anni ha triplicato le proprie medie spettatori e quintuplicato il numero di iscritte. Per far cambiare le cose non c’è niente di meglio dell’ottenere risultati. Wiegman ci è riuscita due volte: in Olanda e in Inghilterra. Due contesti differenti per storia, struttura e prospettive. Nel primo caso si trattava di costruire, nel secondo di finalizzare un processo di costruzione già in atto. Ma l’eco della sua esperienza e la forza della sua storia sono oramai tali da poter produrre effetti pressoché ovunque. All’età di sette anni, Sarina Wiegman voleva giocare a calcio, ma le fu detto di no. Un problema di mancanza di infrastrutture, ma anche di mentalità. Lei non si è mai definita una persona da barricate, che alza la voce. Ci vogliono anche quelle, ma servono caratteristiche che Wiegman non reputava di possedere. Il suo bagaglio prevedeva determinazione, studio, applicazione, tutto finalizzato a ottenere un risultato, condizione necessaria per poter portare avanti la propria battaglia. Verso l’adolescenza una piccola porta si apre e lei si butta dentro. A 16 anni vola negli Stati Uniti per un’esperienza da calciatrice all’Università del North Carolina sotto la guida di Anson Dorrance, all’epoca tecnico della nazionale Usa femminile e forte di 21 titoli Ncaa con la squadra femminile della citata università. Si ritrova su un altro pianeta, estremamente professionale e competitivo, totalmente focalizzato sull’obiettivo da raggiungere. Era quello l’approdo che avrebbe dovuto avere il calcio femminile. Professionalità, professionismo, sviluppo delle competenze. Il passaggio successivo lo ha descritto lei stessa: «Abbandonare la necessità di doversi sentire apprezzata, di dover piacere agli altri, di seguire percorsi già predisposti». In occasione della sua partita numero 100 con la maglia della nazionale olandese, l’11 aprile 2001 a Hoogeven, con una carriera ormai agli sgoccioli e la necessità incombente di cominciare a pensare al dopo, disse a Louis Van Gaal, autore di un Masterplan sullo sviluppo e sulle prospettive del calcio nei Paesi Bassi, incluso quello femminile, che sarebbe diventata un’allenatrice, non per «farne una professione, ma per contribuire con le mie idee a far crescere il movimento».

Più una spesa che un’impresa

Inizia a Ter Leede, società a una manciata di chilometri da Den Haag, e vince subito l’accoppiata coppa-campionato. Ma l’autentica palestra sono gli scontri a favore di un trattamento paritario in termini di utilizzo delle infrastrutture: il campo di allenamento principale veniva assegnato alla selezione maschile del Ter Leede, piuttosto modesta, anche nei turni di allenamento della squadra femminile, che invece era al top in Olanda. I risultati ottenuti le offrono voce in capitolo per portare un’istanza di cambiamento, e la cosa funziona. Poi nel 2007 viene creata la Eredivisie Vrouwen, la versione femminile della massima divisione calcistica olandese, e Wiegman riceve la chiamata dell’Ado Den Haag. Decide di lasciare il lavoro di insegnante di educazione fisica per concentrarsi unicamente sulla professione di allenatrice. «Se avessi guardato i soldi, non avrei mai dovuto diventare allenatrice di calcio – ha ricordato –. È costato una fortuna alla nostra famiglia. Ma sia io, sia mio marito abbiamo sempre seguito le nostre passioni. Anzi, lui ha significato più per me di quanto io abbia significato per lui, perché mi ha permesso di ricoprire questi incarichi, anche quando questo si traduceva in una riduzione dello stipendio rispetto a quello che guadagnavo nella scuola in cui lavoravo». Sette anni dopo il Den Haag, Wiegman festeggia i primi dodici mesi da c.t. della nazionale olandese vincendo uno storico Europeo, potando a compimento un processo di costruzione del movimento di cui lei stessa era stata tra le ispiratrici. Nel biennio 2017-19, quando le Leeuwinnen arrivano a giocarsi la finale Mondiale e si qualificano per la prima volta alle Olimpiadi, nessuna disciplina sportiva vantò un incremento percentuale, sia in termini di praticanti, sia di spettatori, sia di sponsorizzazioni, come il calcio femminile. Poi arriverà la fase di riflusso, coincidente con la fine del ciclo Wiegman, il progressivo addio, per questioni anagrafiche, delle big Oranje e il declino di risultati della nazionale (uscita nei gironi all’ultimo Europeo). Ma questa è un’altra storia, che non scalfisce le solide fondamenta, soprattutto a livello di attività di base, sulle quali poggia il calcio femminile olandese, e rappresentate dalla statua di Sarina Wiegman che campeggia fuori dalla sede della Federcalcio olandese, immersa nei boschi di Zeist. In occasione del centenario, infatti, fu scelto un undici tipo dell’Olanda da immortalare attraverso altrettanti manufatti. A questa squadra del secolo, che tra gli altri include Johan Cruijff, Marco van Basten, Ruud Gullit, Frank Rijkaard, Ruud Krol e Johan Neeskens, furono aggiunti Rinus Michels e, successivamente, Dennis Bergkamp. La statua numero 14, l’ultima finora realizzata, è dedicata a Wiegman.


Keystone
Una persona poco incline alle interviste

La migliore per diventare i migliori

Nel 2021 la Federcalcio inglese ha scelto l’allenatrice di Den Haag con l’obiettivo di finalizzare attraverso un risultato sportivo la mole di investimenti fatta per incrementare il livello del proprio calcio femminile. Investimenti strutturali ma anche di supporto allo sviluppo dei club attraverso accordi economici da record per il mondo del calcio femminile europeo, basti pensare ai 35 milioni di franchi spesi in tre anni a sostegno delle competizioni femminili e nei programmi scolastici per avvicinare le bambine al gioco del calcio. In poche parole: gli inglesi e le inglesi hanno scelto la migliore per diventare i migliori. In realtà nell’élite del calcio femminile ci erano già, visto che dal 2009 al 2017 le Lionesses erano sempre arrivate tra le prima quattro agli Europei. Mancava però il passaggio finale, quello più difficile: vincere il trofeo. Wiegman ci è riuscita due volte, e in due modi completamente diversi. Imperioso nel 2021, stabilendo il record assoluto di reti segnate (22) in un Campionato europeo, femminile o maschile; laborioso nel 2025, compensando una certa mancanza di bilanciamento della squadra con robuste dosi di grinta, dedizione, aggiustamenti tattici in corso d’opera, e anche di fortuna. Se la vittoria del 2021 aveva portato Micheal Cox e Mark Carey del magazine The Athletic a parlare di uno stile dell’Inghilterra passato dallo Stoke City di Tony Pulis all’Arsenal di Mikael Arteta, quella del 2025 ha mosso Chris Templeman di Voetbal International a un paragone con l’animo della Germania dei suoi titoli europei e mondiali: non la squadra migliore in assoluto, ma quella che alla fine ha concluso davanti a tutti.

Chi parla e chi fa parlare i fatti

«Idee, organizzazione e disciplina non hanno genere», ha risposto una volta Wiegman a un giornalista che le faceva notare come sia i propri punti di riferimento sia i suoi collaboratori fossero uomini: il citato Dorrance e Van Gaal nel primo caso, Foppe de Haan (due europei under-21 vinto con l’Olanda maschile) e Arjan Veurink (6 campionati olandesi femminili) nel secondo. Il primo era nel suo staff durante l’Europeo 2017, mentre il secondo l’ha sempre affiancata, anche se il sodalizio quasi decennale è destinato a sciogliersi, visto che Veurink assumerà a beve la carica di c.t. dell’Olanda femminile. Confronti e generalizzazioni, del resto, faranno sempre parte dell’universo calcistico, con il lato maschile destinato a proiettare un’ombra perenne su quello femminile, spesso unicamente a scopo denigratorio, come il recente caso dell’amichevole tra Lucerna under-15 maschile e Nazionale svizzera femminile insegna. C’è chi parla e chi fa parlare i fatti. Come Wiegman, che rifiuta il 95% delle richieste da radio, giornali e tv perché «parlare di temi quali istruzione, sport, giovani ed esercizio fisico è ciò che interessa a me, ma non a loro»; che nel 2021 firmò con le sue giocatrici una lettera aperta al Parlamento inglese chiedendo al Primo Ministro di «fornire a ogni ragazza del Paese la possibilità di seguire le orme delle giocatrici per le quali avevano fatto il tifo»; che alla guida dell’Inghilterra femminile ha vinto 34 delle 48 partite disputate, per una media del 70,83%. Il Guardian ha stimato che nella storia dello sport inglese di squadra, solo in tre occasioni una singola gestione vincente aveva portato a medie superiori: la nazionale maschile di rugby 2000-2003 (42 vittorie su 47, 89,4%); la nazionale maschile di cricket 2016-2019 (48 su 63, 76,2%); e i campioni del mondo di calcio di Sir Alf Ramsey, che dal 1966 al 1971 raccolsero 26 vittorie in 36 partite, pari al 72,2 per cento.