Autori di una protesta civile contro l'operato del governo israeliano, i giovani atleti svizzeri sono stati censurati e stigmatizzati in patria e fuori
Quello affondato sabato a Tallinn agli Europei Under 23 di scherma dal quartetto elvetico non è certo stato un ricamo di fioretto. E a ben vedere, diversamente non poteva essere, visto che si tratta della Nazionale di spada, arma ben più contundente e autorizzata a colpire bersagli assai più estesi. Fatto sta che Ian Hauri, Théo Brochard, Jonathan Fuhrimann e Sven Viteis, messisi al collo l’argento, contrariamente a quanto previsto dal protocollo hanno rifiutato di voltarsi ossequiosamente verso le bandiere delle nazioni con cui condividevano il podio.
Si è trattato, verosimilmente, di una mossa che intendeva rimarcare il loro dissenso verso Israele, squadra contro cui avevano perso in finale, ma soprattutto Paese che sta conducendo una guerra contro i terroristi di Hamas ma che fa vittime pure fra i civili.
La coraggiosa presa di posizione ha suscitato comprensibile indignazione a Gerusalemme, ed è stata stigmatizzata addirittura dal ministro degli Esteri israeliano Gideon Saar. A condannarla è stata immediatamente anche la Federazione svizzera di scherma, che si è dissociata, ha chiesto venia a 90 gradi e ha promesso sanzioni contro i suoi giovani atleti.
Secondo l’istanza nazionale della pedana, infatti, sport e politica non dovrebbero mai essere mescolati. Quest’idea, peraltro diffusissima, altro non è che una solenne minchiata, e da queste colonne l’abbiamo già più volte ricordato. Non esiste infatti un altro ambito in cui – da quando l’agonismo d’alto livello è entrato prepotentemente nella società – la politica abbia infilato il becco più a fondo. I due mondi sono infatti inscindibili, e di esempi a corroborare quanto dico ce ne sarebbero in gran copia. Si potrebbe addirittura sostenere che tutto quanto abbia a che fare con lo sport sia figlio proprio della politica, del suo potere e dei suoi frequenti paradossi.
Eppure, sopravvive la falsa idea che i due universi siano per definizione antitetici. Il fatto è che il mondo dello sport, tramite le sue istituzioni, di decisioni politiche ne prende di continuo, a tutti i livelli, ma allo stesso tempo impedisce paradossalmente ai suoi affiliati di prendere partito su tutto ciò che suoni anche vagamente politico.
Forse non tutti sanno – ad esempio – che dopo la Seconda guerra mondiale Germania e Giappone furono banditi per molti anni da manifestazioni come Olimpiadi o Mondiali di calcio, per l’ovvio motivo che, durante il conflitto, si erano macchiati dei peggiori crimini contro alcune minoranze. Lo stesso Comitato olimpico internazionale, però, nel 1968 squalificò a vita i due atleti afroamericani che ai Giochi di Città del Messico usarono il podio dei 200 metri per ricordare che negli Stati Uniti altre minoranze subivano da secoli vergognose discriminazioni.
Degno di nota – si fa per dire – è pure l’atteggiamento della Fifa o della Uefa, cioè i governi planetario e continentale del mondo del pallone, che su un medesimo tema adottano politiche antinomiche a seconda della tetta da cui, in un determinato momento, stanno succhiando.
Tutti ricorderanno infatti che, qualche anno fa, sui palcoscenici europei fu reso obbligatorio esibire a bordo campo o sulle divise dei calciatori i simboli arcobaleno a difesa dei diritti delle minoranze di genere, e severamente puniti sono coloro che osano non sottostare a tali norme. Ebbene, all’ultima edizione della Coppa del mondo, disputata in Qatar nel 2022, a entrare in vigore furono leggi che dicevano esattamente il contrario: proibivano cioè tassativamente di far mostra dei medesimi emblemi multicolori, pena pesantissime squalifiche e salate sanzioni.
Il paraculismo è male endemico, probabilmente prospera in ogni consesso umano, ma è innegabile che nel mondo della politica – e dunque anche in quello dello sport – trovi terreno ancor più fertile. A discapito di tutti quegli atleti che, contravvenendo ai diktat istituzionali o all’adagio secondo cui se sei cittadino di un Paese neutrale non hai diritto di esprimere la tua opinione su un conflitto in corso, decidono di esporsi pur sapendo di rischiare qualcosa. Salvo poi esser costretti dall’alto a fare pubblica ammenda, com’è in effetti successo ieri in serata agli spadisti elvetici.