La celebre montagna provenzale, dove l’inglese morì in gara nel 1967, sarà teatro oggi della sedicesima tappa del Tour de France
Prima di diventare una delle più celebri asperità della storia del Tour de France, il Mont Ventoux – nume tutelare della Provenza che la carovana gialla tornerà ad affrontare proprio oggi – era conosciuto soprattutto per via di Francesco Petrarca. Convenzionalmente considerato il pioniere di coloro che ne hanno raggiunto la vetta – benché sia poco probabile che nessuno l’abbia preceduto in questa impresa – il poeta del Canzoniere fu però senz’altro colui che per primo di tale conquista lasciò testimonianza scritta.
Giunto nel sud della Francia ancora bambino al seguito del padre esule politico fiorentino, Petrarca crebbe a Carpentras col mito di quel monte onnipresente, minaccioso, arido e all’apparenza inespugnabile. E così, quando aveva ormai quasi trentadue anni, decise che ne avrebbe tentato la scalata in compagnia del fratello Gherardo, che era monaco certosino. Uomo del suo tempo, Francesco in quell’arrampicata non vedeva nulla di sportivo, e men che meno di turistico, concetti che sarebbero apparsi sulla scena soltanto molti secoli più tardi. A spingerlo verso la vetta di quel gigante calvo, pietroso e ostile era invece l’idea – assai diffusa all’epoca – che le montagne fossero il luogo più vicino al cielo, e quindi a Dio. Del resto, pure Francesco aveva preso voti religiosi, sebbene minori.
Accompagnati da due servitori ingaggiati a Malaucène, i due fratelli impiegarono tre giorni a compiere l’impresa, portata a termine il 26 aprile 1336 e in seguito descritta dal poeta in una lettera indirizzata a Dionigi da Borgo San Sepolcro, suo confessore e insegnante, fra gli altri, anche di Boccaccio. Curiosi, di quel resoconto, sono soprattutto due episodi.
Il primo è relativo al fatto che, mentre il fratello Gherardo proseguiva con passo regolare lungo la via più diretta – più breve ma logicamente pure più ripida e dunque più faticosa – Francesco, meno disciplinato, cercava per contro approcci alternativi, meno spossanti, finendo però inevitabilmente per allungare il tragitto, trovando più volte la via sbarrata e vedendosi spesso costretto a tornare indietro, ritrovandosi infine ben più stanco di colui che invece non aveva osato deviare dalla retta via.
Il secondo racconta invece dell’incontro che i due fratelli, salendo verso la vetta, ebbero con un umile pastore, il quale tentò di dissuaderli dalla loro impresa, assicurando che pure lui – da giovane – si era arrampicato fino in cima, e che non ne aveva ricavato nulla se non delusione e fatica. Evocando le scettiche parole del pecoraio, Petrarca dimostrò un coraggio certo non comune, visto che – come detto – ai quei tempi si saliva sulle montagne per trovare il Divino.
In tempi molto più recenti, sui tornanti ormai asfaltati che salgono al Monte Ventoso – dove il mistral soffia facilmente a 170 km/h – in sella a una bici incontrò invece Sorella Morte il ventinovenne Tommy Simpson, da un paio d’anni nominato baronetto per meriti sportivi dalla regina Elisabetta II. Era il 1967, e l’inglese – vincitore di Mondiale, Fiandre, Sanremo e Lombardia – già da qualche anno, per reggere il ritmo frenetico delle gare a cui prendeva parte, aveva cominciato a farcirsi di anfetamine. Ai tempi, infatti, le squadre pagavano pochino e tutti i corridori erano portati ad accettare qualsiasi ingaggio proposto dagli organizzatori di kermesse, circuiti, ‘sei giorni’ e compagnia cantante. E dunque, spesso, cercavano di aiutarsi assai empiricamente.
Sta di fatto che in quel caldissimo 13 luglio di 58 anni fa, il fisico di Simpson – da anni sollecitato all’inverosimile e alimentato da un sangue sempre più contaminato – finì per cedere. Poco prima di crollare definitivamente, si era già fermato una prima volta, incapace di dare anche un solo ulteriore colpo di pedale. Si disse che ad aiutarlo a riprendere l’arrampicata, oltre agli incitamenti degli appassionati a bordo della strada, furono pure due sorsate di cognac succhiate dalla fiaschetta allungatagli da un tifoso. Riuscì dunque a tornare in sella, e a macinare un altro centinaio di metri su quella fornace in salita, ma poi il cuore gli scoppiò del tutto, e il ciclismo ebbe un altro dei suoi infiniti martiri da celebrare.