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‘Fare la propria parte, antidoto all’inazione’

Si conclude oggi lo sciopero della fame simbolico di medici e infermieri sulla Piazza federale. Il dottor Pietro Majno-Hurst ci racconta com’è andata

Il dottor Majno-Hurst giovedì mattina sulla Piazza federale, intervistato da un giornalista di ‘Falò’
(Stefano Guerra)
26 settembre 2025
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Pierre-Alain Fridez ha un braccio legato al collo da una vistosa benda. Il consigliere nazionale socialista mostra un grosso livido sulla tibia sinistra a una persona che indossa un camice bianco con una chiazza rossa all’altezza del cuore. È il dottor Michele Tognina, pediatra a Massagno. Il giurassiano gli racconta di esserselo procurato il giorno prima, scivolando sulle scale di Palazzo federale. “Qui dentro ad ogni modo non succede granché”, dice. Dentro, in realtà, succedono parecchie cose (vedi a lato). Ma il giurassiano non parlava né di lupo, né di ‘Svizzera da 10 milioni di abitanti’. Parlava di Gaza.

Michele Tognina, la dottoressa Alessandra Guaita di Zurigo e il dottor Patrick Bodenmann di Losanna sono di turno oggi. Non in corsia, sulla Piazza federale: per lo sciopero della fame simbolico indetto dagli ‘Operatori sanitari svizzeri contro il genocidio’, protrattosi durante l’intera sessione autunnale del Parlamento (weekend compresi) che si conclude stamane. Per sollecitare il Consiglio federale ad applicare sanzioni mirate contro Israele e a riconoscere lo Stato di Palestina; e rendere omaggio ai loro colleghi uccisi a Gaza mentre facevano il loro lavoro.

Tutto esaurito

Una sessantina tra medici e infermieri si sono alternati in queste tre settimane sulla Piazza federale, tra le 7.30 e le 19.30, weekend compresi. Alcuni giorni i camici bianchi li hanno trascorsi sulla Bahnhofplatz, la piazza della stazione, a pochi minuti a piedi da lì, dove il viavai di persone (non proprio le stesse che passano davanti a Palazzo federale) è intenso e continuo. “Alla fine era sold out [tutto esaurito, ndr]: si sono annunciati più colleghe e colleghi dei posti disponibili”, dice a ‘laRegione’, abbozzando un sorriso, il dottor Pietro Majno-Hurst.

Il primario di Chirurgia dell’Ospedale Regionale di Lugano, che assieme all’oncologo Franco Cavalli e ad altri hanno coordinato l’azione, è seduto su un divanetto al pianterreno del Medienzentrum, a poche decine di metri dalla Piazza federale. Gli mostriamo la prima pagina del ‘Bund’. Oggi il titolo d’apertura è su Gaza: ‘La Confederazione vuole portare bambini feriti in Svizzera’. In effetti si sta valutando la possibilità di accoglierli e curarli, ha appena fatto sapere il Dipartimento federale di giustizia e polizia. Secondo la Srf, si tratterebbe di 20 fanciulli e dei loro familiari. La missione di evacuazione è pronta, si attende ‘solo’ il nullaosta del governo israeliano. Manca ancora l’ufficialità, dunque (solo più tardi si saprà che il Consiglio federale comunicherà oggi al riguardo). “Con che diritto Israele potrebbe rifiutarsi di farlo?”, dice il dottor Majno. “E cosa faremmo noi in caso di rifiuto? Ogni giorno ciascuno di noi è chiamato a posizionarsi in modo chiaro, di fronte a quel che accade a Gaza. La Svizzera – il Consiglio federale – non lo sta facendo; e così dà un cattivo esempio alla popolazione”.

L’arte di far finta di non vederti

In queste settimane, lui e i suoi colleghi sulla Piazza federale ne hanno visti di politici voltare la testa dall’altra parte passando di lì, guardare per terra, accelerare il passo, far finta di essere indaffarati o di ricevere una telefonata improvvisa. L’amarezza, nella voce pacata di Pietro Majno, è palpabile. Gli ha “fatto male”, dice, constatare “questa polarizzazione”, la “mancanza di ascolto”. “Una parte della Svizzera, sia quella della stampa germanofona, sia quella degli esponenti dei partiti borghesi, non si è mai degnata di fermarsi a parlare con noi. Nemmeno i politici ticinesi che, su queste colonne, hanno condannato la contestazione di venerdì a Bellinzona in nome del bisogno di discutere civilmente, hanno preso il tempo di venire a parlarci”. Persino un politico ticinese “che conosco bene, con il quale avevamo parlato una sera, su un treno Tilo. L’ho chiamato: si è fermato un picosecondo chiedendo se era qualcosa di complicato, prima di tirare dritto. Avrebbe anche potuto dirmi: ‘Vado di fretta, ma più tardi torno e ne discutiamo’. Non l’ha fatto. Ci sono rimasto male: in fondo sono venuto qui apposta dal Ticino; ma da parte loro, nessuna voglia di scambiare, di capire il senso di quel che stiamo facendo”.

‘Sono i valori di tutti’

In Parlamento, va da sé, le cose non potevano andare diversamente. Dalla sessione è uscito soltanto un generico invito rivolto al Consiglio federale affinché sfrutti appieno le possibilità sul piano diplomatico per porre fine alle barbarie. Sospendere la collaborazione militare con Israele? Riprendere le sanzioni Ue contro i coloni israeliani che hanno commesso violenze? Manco a parlarne. Solo la sinistra lo voleva. O mosche bianche come il consigliere nazionale Giorgio Fonio (Centro), che ha osato smarcarsi dal resto del suo gruppo.

Un’inerzia diffusa che Majno trova “dolorosa”, perché “certi valori non sono di destra o di sinistra, sono i valori di tutti. A essere misconosciuti non sono ‘solo’ i diritti dei palestinesi, ma i migliori valori dell’Occidente. A cominciare dall’amore per la verità, calpestata dal nostro ministro degli Esteri Ignazio Cassis, ad esempio quando – dopo l’ennesima strage di civili a Gaza – ha affermato che ogni guerra è anche una guerra dell’informazione, e che perciò è difficile capire da dove siano partiti gli spari”. Un’inerzia anche “incomprensibile”, poiché “il buon senso vuole che si utilizzino tutti gli strumenti disponibili. Non dico che tutti in Israele debbano avere il conto in banca [in Svizzera, ndr] bloccato, ma chi collabora col governo e con l’esercito sì”. Cassis, che ha l’ufficio a due passi da qui, in queste settimane sulla Piazza federale non si è visto. Majno scuote la testa: “Mai. Mai. Mai”.

L’altra metà della storia

Questa è solo una parte della storia. “Molte persone ci hanno detto: ‘Finalmente qualcuno che fa qualcosa’. ‘Fare qualcosa’ vuol dire semplicemente prendere posizione, in maniera autorevole, non chiassosa, senza kefiah o altri segni distintivi pro Palestina, rispetto a una situazione intollerabile, ma che tanti alla fine tollerano”. Parole e gesti di riconoscenza ce ne sono stati. Così come scambi civili con chi vede le cose in modo diverso. “Due persone, ebrei, si sono messe a discutere con noi: ‘Perché non parlate degli ostaggi?’, ci dicevano. La cosa si è smorzata subito: ho raccontato di mio padre, rifugiato ebreo durante la Seconda guerra mondiale; ho detto loro che gli ostaggi sono un crimine di guerra; e ho ricordato che la Svizzera ha già fatto quel che doveva fare con Hamas, dichiarandolo organizzazione terroristica e tagliando i fondi all’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi sulla base di un sospetto di collusione”.

Lo ‘sciopero’ è la prima di una serie di azioni non violente che gli operatori sanitari ‘contro il genocidio’ hanno preparato. Oggi scatta il boicottaggio di Mepha, azienda farmaceutica del gruppo israeliano Teva, “che sostiene l’occupazione dei Territori palestinesi”. A ottobre, in un flash mob sulla Piazza federale, verranno stesi 1’800 camici bianchi per ricordare i colleghi uccisi a Gaza. “E se arriveranno i bambini feriti, ci occuperemo di loro”. Intanto domani, sabato, c’è una manifestazione silenziosa e autorizzata – “di tutti, non della sinistra” – a Bellinzona. Per chiedere “che il nostro Governo assuma i suoi doveri di custode del diritto internazionale umanitario”. Ma anche per permettere a chiunque di “fare la propria parte, come il colibrì che porta le gocce d’acqua dal fiume e le lascia cadere, una a una, sulle fiamme che divorano la foresta [un’antica favola africana, ndr]”. “Antidoto all’inazione”, lo chiama il dottor Majno.