Morta pochi anni fa in Puglia, la storia e il lavoro della fotografa genovese raccontano impegno civile e amore per l'umanità, il suo manifesto
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Nata a Genova il 15 febbraio di centouno anni fa, Lisetta Carmi lascia la sua vita terrena il 5 luglio 2022, a Cisternino. In mezzo a queste due date, corrono cinque esistenze, di cui una vissuta come fotografa con occhio lucido e sincero. Provo a raccontarla…
“Se le mie mani sono più importanti del resto dell’umanità, allora smetto di suonare”. Lo dice, senza troppi giri di parole, Lisetta Carmi ad Alfredo They, suo maestro di pianoforte. Siamo nel 1960 e They non vuole che la sua allieva partecipi – schierandosi con ex partigiani e operai – alla manifestazione antifascista e di protesta contro il raduno nazionale del Movimento Sociale Italiano a Genova, in calendario il 30 giugno dello stesso anno. Con quelle parole di cesura, Lisetta dà un calcio al suo presente: ha 36 anni suonati ed è una pianista e concertista.
Si dice che Carmi abbia vissuto cinque di vite, almeno quelle terrene. Per raccontarle tutte non basterebbe un libro, cerco di concentrarmi allora sulla fotografia – a cui ha dedicato 18 anni – che è stata sì un mestiere, ma soprattutto uno strumento conoscitivo dell’altro; per far emergere la verità e dare voce a chi non ne ha. Ma procedo con ordine e con una corposa analessi.
“Sono nata a Genova, in via Sturla 15, il 15 febbraio 1924 alle sei e mezza del mattino. Acquario con ascendente acquario”, racconta a Giovanna Calvenzi, che nel 2023 pubblica per Contrasto Le cinque vite di Lisetta Carmi (da qui citato Calvenzi).
Il contesto in cui viene alla luce è quello di una famiglia medioborghese di origini ebraiche: Lisetta è l’ultima dei tre figli di Attilio Carmi e Maria Pugliese. Va a scuola a Genova, dove frequenta fino alla terza ginnasio, ma poi le leggi razziali (promulgate nel ’38) la costringono a casa, mentre i due fratelli, Eugenio e Marcello, espatriano in Svizzera. Per la quattordicenne è un periodo di profonda solitudine e tristezza, la sua unica compagnia è il pianoforte, iniziato a suonare a circa dieci anni. Costretta dalla grande Storia, nel ’43 tutta la famiglia scappa dall’Italia, rifugiandosi a Zurigo, dove la ragazza frequenta il Conservatorio per circa due anni, dopodiché rimpatria da sola e si diploma in pianoforte al Conservatorio di Milano, nel 1945. Più che ventenne, intraprende la carriera di concertista che la porta a esibirsi in Europa (il primo evento è in Germania) e in Israele. A questa attività affianca anche l’insegnamento dello strumento a piccoli gruppi di allievi. E poi ripassiamo dal via, dalla repentina e irrevocabile cesura del 1960 che la porta alla scoperta della fotografia.
Il primo – dozzinale – apparecchio fotografico di Carmi è un’Agfa Silette che, insieme a nove rulli, porta con sé durante un viaggio in Puglia con l’amico etnomusicologo Leo Levi. Siamo ancora nello stesso fatidico anno e Lisetta ancora non sa di saper fotografare. Le stampe di quanto catturato in Puglia sono in questo senso rivelatrici: chi le è vicino le dice che sembra Cartier-Bresson, allora Carmi si dice: “Se sembro Cartier-Bresson, farò la fotografa”. Questa decisione, presa quasi istintivamente, diventa la sua seconda vita.
Una volta tornata a casa, su consiglio del fratello Eugenio (che, detto per inciso, è stato un pittore esponente dell’astrattismo italiano), Lisetta riparte per Berna, per imparare a stampare con Kurt Blum, un amico fotografo del suddetto fratello. Di Blum, ricorda Carmi, porterà sempre con sé un insegnamento essenziale riassunto in una frase tanto semplice quanto forte: “Guarda sempre cosa c’è dietro”. Carmi studia quindi fotografia prevalentemente da autodidatta: la teoria la apprende grazie a un libro tecnico di Andreas Feininger; la maestria l’acquisisce con la pratica: fa tutto dalla A alla Z, dallo scatto allo sviluppo, e si dà dei compiti per affinare le tecniche narrative, imponendosi cicli fotografici che raccontino una storia. Il primo “vero” apparecchio del mestiere è una Leica M2, acquistatale dal padre, deciso a sostenere la figlia nel nuovo cammino intrapreso.
© Martini & Ronchetti, courtesy Archivio Lisetta Carmi
Autoritratto, 1974
Nel ’62, sempre per intercessione di Eugenio, Lisetta conosce il direttore del Teatro Duse, Ivo Chiesa, che la assume come fotografa di scena. Lì lavora per tre anni e quel luogo costituisce per lei un’essenziale scuola di mestiere, abituandola alla rapidità, allo studio delle luci e dell’inquadratura. Dopo quegli anni, si licenzia e iniziano ad arrivare le prime commissioni pubbliche dal Comune di Genova, per cui svolgerà diversi reportage: dai bambini ammalati dell’Ospedale Gaslini all’anagrafe. Fra queste, nel ’64, la Società di cultura di Genova le richiede un reportage sociale che diventa Genova porto: monopoli e potere operaio, un’opera che è documento di denuncia delle spaventose condizioni di lavoro e di sfruttamento dei camalli.
© Martini & Ronchetti, courtesy Archivio Lisetta Carmi
Genova Porto, 1964, lo scarico dei fosfati
Segue un periodo in giro per l’Europa: Inghilterra, Irlanda, Parigi sono i luoghi dove “inseguire e documentare”, è però il 1965 a segnare un momento cardine nella sua ricerca, durante il quale germinerà il suo lavoro più noto: il racconto della quotidianità dei travestiti genovesi.
© Martini & Ronchetti, courtesy Archivio Lisetta Carmi
Palestina, Gerico, 1967
Nel frattempo viaggia ancora scattando sempre fotografie: va in Israele, Palestina, torna in Italia dove l’allora direttore dell’Ansa di Genova le commissiona il ritratto del poeta Ezra Pound (“un’emozione indescrivibile”, dichiara), un servizio con il quale partecipa al prestigioso Premio Niépce per l’Italia; vincendolo. Esplora pure l’America Latina, a fine anni Sessanta, e nel decennio successivo allarga il suo orizzonte a oriente, passando per Istanbul, il lago di Van, Herat e Kabul; visita pure Pakistan, Nepal e India, dove entra in contatto con Babaji Herakhan Baba, che determina un nuovo punto di svolta nella sua esistenza, tragittandola alla sua terza vita. Il suo ultimo importante lavoro fotografico è un reportage affidatole dall’azienda siderurgica Dalmine, intitolato Acque di Sicilia (1977).
© Martini & Ronchetti, courtesy Archivio Lisetta Carmi
Venezuela, Il Basurero a Maracaibo, 1969
Dopo un ventennio dedicato alla fotografia, di punto in bianco, Carmi cambia vita smettendo la professione, tenendo comunque sempre in tasca l'apparecchio fotografico. L’incontro nel 1976 con il maestro spirituale Babaji (Mahavatar dell’Himalaya che la ribattezza Janki Rani) la spinge infatti a trasferirsi nel suo trullo di Cisternino (in Puglia), acquistato una manciata di anni prima, dove fonda l’ashram Bhole Baba (inaugurato nel 1986) e guida la sua comunità in nome di Babaji. Procedendo a lunghi passi sulla linea del tempo: nella sua quarta vita, Lisetta torna alla musica, senza abbandonare la sua comunità come scrive ne La voce di Cisternino (1998): “Più libera dai compiti dell’ashram, ho ripreso a studiare il pianoforte e la musica, in particolare la ‘Musica dell’Assenza’ di Paolo Ferrari” (Calvenzi). Carmi ha 74 anni e di lì a poco chiude anche quest’esperienza.
“È stato un cammino inevitabile: dalla musica alla fotografia, dalla fotografia a Babaji, da Babaji a Paolo Ferrari e da Paolo Ferrari all’assenza, alla libertà. Oggi posso dire di essere una persona libera che fa quello che è giusto fare al momento giusto”. Lisetta Carmi muore a Cisternino il 5 luglio 2022, a 98 anni.
foto G. B. Martini /Archivio Lisetta Carmi
Lisetta Carmi, Cisternino, 2018
Insieme alla funzione documentale e di testimonianza, la fotografia ha anche un ruolo di denuncia: mentre racconta genera consapevolezza e riflessione in chi la guarda che scopre contesti altri, di diversità, di dolore, di crisi, di guerra, spesso mettendo in luce ciò che non si vuole vedere, di cui si fa finta di niente, perché è più facile girarsi dall’altra parte mettendo a tacere qualsiasi moto di coscienza.
Guardando al corpus fotografico di Carmi, è evidente il suo interesse per le persone ai margini, discriminate, cancellate, senza voce, a cui restituirla. La sua sensibilità si accompagna a una visione acuta del mondo, con cui ha sempre ricercato la verità, come impegno civile, senza giudizi e moralismi. In lei dimoravano inquietudine e curiosità che la spingevano a usare l’apparecchio come strumento conoscitivo degli altri e di sé stessa, senza artifici.
© Martini & Ronchetti, courtesy Archivio Lisetta Carmi
Venezuela, "Ser Cristiano es ser de izquierda", Venezuela, 1969
Lo scrive Calvenzi: “La fotografia di Lisetta Carmi avrà sempre queste caratteristiche: una distanza media, uno sguardo diretto, un grande rispetto per gli esseri umani e nessuna scorciatoia per raggiungere un maggiore impatto narrativo”. La fotografa stessa in un’intervista del 2004 (mai pubblicata, ma leggibile in Calvenzi) chiarisce il suo rapporto con il linguaggio espressivo eletto: “Il linguaggio che mi inventavo lo può leggere un critico, non lo leggo io. Io guardo più all’essenza, allo spirito dei soggetti che fotografo. Il linguaggio è soltanto il risultato del mio ‘vedere’. Non ho mai cercato di ‘parlare’ in un certo modo, ma ho ‘sentito’ l’intensità delle persone e delle cose che fotografavo”.
Scriveva di sé: “Fa la fotografa e lavora come fotografa libera. Il suo interesse va alla vita dell’uomo in tutte le sue espressioni. Crede nella fotografia come testimonianza e documento. Crede che il mezzo politico più efficace e rivoluzionario per cambiare il mondo è amare la vita e gli uomini”
Negli anni Settanta, Lou Reed canta la Wild Side di New York nell’album Transformer (1972) e pure Lisetta, qualche anno prima, documenta il selvaggio lato genovese, confinato nell’antico ghetto ebraico. Il lavoro focalizzato sulla comunità dei travestiti dura poco più di sei anni e dà vita (è proprio il caso di scriverlo) a un volume pubblicato nel ’72, in tremila copie, che ha rischiato di finire al macero e che sfiora oggi il mito. Per l’epoca, I travestiti (essedi editrice, Roma) è una pubblicazione fotografica – fra le più importanti – sconvolgente, scandalosa e per questo tenuta sottobanco. Oggi è un’opera di culto quasi introvabile e valutata a peso d’oro con una storia tutta a sé. Del resto, non a caso, Grazia Neri (fondatrice della prima agenzia fotografica italiana nel 1966) diceva di Carmi: “Una donna coltissima e intelligente, solitaria, una ribelle naturale nello scegliere gli argomenti da affrontare, non sempre facili da vendere” (da Calvenzi).
© Martini & Ronchetti, courtesy Archivio Lisetta Carmi
Itravestiti, Dalida 1965-1967
Torniamo in Via del Campo (la stessa di De André), in limine del ghetto ebraico; torniamo all’incontro e alla vita trascorsa da Carmi insieme ai travestiti, da lei raccontata “con amore e con amicizia” nel volume sopraccitato: “Io sono entrata nell’ambiente dei travestiti per caso nel 1965 durante una festa di capodanno: li ho rivisti successivamente nella loro vita quotidiana e ho cominciato a vivere con loro e fotografarli. Li ho subito sentiti come esseri umani che vivono e soffrono tutte le contraddizioni della società come minoranza ricercata da una parte e respinta dall’altra. Non è un caso però se il mio interesse e la mia partecipazione ai loro problemi hanno creato fra me e loro una fiducia, un affetto, una comprensione che mi hanno permesso di fare questo lavoro con un rapporto che andava al di là di un normale rapporto fra fotografo e fotografati. Io stessa in quel tempo ero assillata – forse a livello inconscio – da problemi di identificazione maschile o femminile. Oggi capisco che non si trattava tanto di accettazione di uno ‘stato’ quanto di rifiuto di un ‘ruolo’. E i travestiti (o meglio il mio rapporto con i travestiti) mi hanno aiutato ad accettarmi per quello che sono: una persona che vive senza un ruolo”. Nella loro essenzialità, queste righe calzano bene a tutta la sua ricerca.
© Martini & Ronchetti, courtesy Archivio Lisetta Carmi
I travestiti, la Gilda, 1965-67
«Conoscevo Lisetta dalla fine degli anni Sessanta, ero compagno di liceo di sua nipote Francesca, figlia di Eugenio, che ogni tanto mi proponeva di andare a trovare la zia a casa. La nostra era una conoscenza di lunga data», ricorda nel tempo di una breve chiacchierata telefonica Giovanni Battista Martini, “l’amico fraterno” (Calvenzi), nonché responsabile dell’Archivio Lisetta Carmi a Genova. Era una donna libera, che non si lasciava incastrare in ruoli predefiniti, del resto lo diceva già a sei anni che lei non si sarebbe mai sposata, perché di padroni non ne voleva (Calvenzi), rifiutando qualsiasi forma di autorità.
Concreta e spirituale, Carmi era estremamente risoluta. Umanamente era una persona schietta, anche nei rapporti con le persone e aveva una gran capacità di capirle: era una donna molto sensibile, soprattutto verso quelli che, un po’ in anticipo sui tempi, definiva “gli ultimi” (Martini). Una condizione a cui si sentiva molto vicina avendo vissuto sulla propria pelle l’emarginazione e la persecuzione. Ragioni per cui sin da giovane sentiva forte gli ideali di giustizia e libertà, che sarebbero poi maturati in cause politiche e sociali raccontate dalla sua macchina fotografica.
Essendo questa una narrazione discontinua e parziale, segnalo alcuni spunti per approfondire l’incommensurabile figura di Lisetta Carmi. Numerosi sono gli agganci di lettura, a partire dalla già citata pubblicazione di Calvenzi (Le cinque vite di Lisetta Carmi, 2023); immancabili nell’elenco i testi a corredo dei cataloghi di mostre e progetti: I travestiti (essedi editrice, Roma, 1972); I travestiti. Fotografie a colori (Contrasto, Roma, 2022). O ancora la tesi di laurea di Patrizia Pentassuglia, Una vita alla ricerca della verità. L’esperienza fotografica in Lisetta Carmi (Università degli studi di Bologna, 1991-1992); La bellezza della verità (Postcart, Roma, 2018). Del 2010 è il film documentario di Daniele Segre, Lisetta Carmi. Un’anima in cammino.
Termino qui, lo spazio è finito.