La cittadina conta poco più di 70mila abitanti e conserva quell’aria sonnacchiosa che hanno certe città già belle di loro che non hanno bisogno di trucchi
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Ho sempre tifato contro il Brasile del “joga bonito”, che i miei amici adoravano, che tutti adorano, preferendo la classe più spigolosa di argentini e uruguaiani. Sentivo continuamente storie di turisti rapinati e malmenati a Rio. E c’era un chiassoso amico di famiglia con delle compilation insensate in cui musica cialtronesca come la Lambada si mischiava ai capolavori della bossanova, confondendomi e facendomi odiare tutto, senza distinzioni. Il portoghese dei brasiliani, poi, è quasi incomprensibile per via dei loro birignao. Insomma, io il Brasile ce l’avevo qui. Poi, per caso, dentro una libreria, ho ascoltato “Para Machucar meu coração” di João Gilberto. Me ne sono innamorato. Sono partito da lì e ho capito che dovevo vederlo con i miei occhi, il Brasile. Ci sono andato. Avevo torto. Ve lo racconto qui.
Ho preso il bus notturno per Ouro Preto da Novo Rio, la nuova, trafficatissima e labirintica stazione di Rio de Janeiro: una Babele fatta di caos e personaggi improbabili e strabordanti che con l’arrivo del buio si moltiplicano ingigantendo i loro tic, le loro manie fino a farti chiedere dove sia il limite, che evidentemente non c’è.
Parliamo probabilmente dell’unico posto al mondo dove potrei rimanere per mia scelta in mutande, in mezzo a un mare di gente, senza vergognarmi. Lo so perché l’ho fatto, convinto che non avrei attirato troppo l’attenzione e che in ogni caso non sarei stato il più strano. Davanti alla prospettiva di sette ore di autobus notturno volevo mettermi qualcosa di comodo, cambiarmi dopo una serata passata in mezzo ai tifosi nello stadio del Vasco da Gama. I bagni, troppo sporchi e per di più a pagamento, non erano un’opzione, quindi mi sono spogliato in mezzo alla gente senza che nessuno ci facesse troppo caso.
Sette ore dopo lo spogliarello improvvisato sono arrivato a Ouro Preto, e per la prima volta dal mio arrivo in Brasile mi sono ritrovato in un posto in cui non era necessario stare in perenne allerta. “Pericoloso qui? Per niente, puoi andare in giro con il portafoglio in mano alle tre di notte e nessuno ti toccherà”. Magari è troppo e la prova pratica non l’ho fatta. Ma Ouro Preto è davvero lontana, non solo in termini chilometrici, da Rio, San Paolo e Salvador. Le sue case coloniali, le sue chiese barocche, i suoi saliscendi, le sue strade acciottolate, le sue piazze - che la gente usa ancora per fare ciò per cui sono nate, incontrarsi - ti restituiscono subito il sapore di un piccolo mondo antico preservato dal disinteresse dell’uomo, che Ouro Preto l’ha creata, quando è iniziata la caccia all’oro (Ouro Preto vuol dire oro nero, dal colore delle pietre che ricoprivano il metallo prezioso), per poi dimenticarsene abbastanza da non rovinarla.
© Roberto Scarcella
Riscoperta come meta turistica nella metà del secolo scorso, è stato il primo sito dichiarato Patrimonio Unesco di tutto il Brasile, nel 1980. Inizialmente si chiamava Vila Rica (Città ricca), talmente ricca da strappare alla vicina Mariana il titolo di capitale dello Stato del Minas Gerais. A metà del Settecento ci vivevano più di 100mila persone: una metropoli se si considera che all’epoca New York aveva la metà degli abitanti, Rio de Janeiro un quinto, San Paolo un ottavo.
© Roberto Scarcella
Saliscendi, angoli da girare e vedute da ammirare
Oggi Ouro Preto supera di poco i 70mila abitanti e conserva quell’aria sonnacchiosa che hanno certe città già belle di loro che non hanno bisogno di attirarti con trucchi ed effetti speciali, basta la loro essenza. Un luogo che ti invita a perdere tempo e che pare costruito apposta per i curiosi, tra curve infinite, angoli improvvisi, salite e discese tortuose, scale, giardini nascosti e panorami mozzafiato che un attimo prima non c’erano.
© Roberto Scarcella
Ouro Preto porta con sé due storie: una è cronaca settecentesca diventata storia nazionale, l’altra è leggenda. La prima è legata alla figura di Tiradentes, leader locale che organizzò la prima rivolta dei brasiliani contro il Portogallo, chiamata Inconfidência miniera (La Cospirazione delle miniere). Finì male, ma al posto di trascinare tutti i suoi uomini con sé, una volta fallita la rivolta Tiradentes si prese la piena responsabilità, scagionando i suoi compagni, che riuscirono così a evitare il patibolo.
Il rivoluzionario venne invece condannato a morte e squartato. La sua testa fu fatta viaggiare da Rio e Ouro Preto e appesa come monito nella grande piazza al centro del paese, oggi chiamata - nemmeno a dirlo - piazza Tiradentes. Il giorno della sua morte, il 21 aprile, è ora una festa nazionale. Per l’anagrafe si chiamava Joaquim José da Silva Xavier, ma visto che il suo nome era troppo lungo e di mestiere faceva il dentista era per tutti Tiradentes, una sorta di precursore di tutti quegli sportivi e artisti brasiliani con nomi lunghissimi che abbiamo imparato a conoscere con i loro soprannomi e diminutivi, da Dunga e Bebeto a Tom Zé, da Toquinho a Garrincha.
© Roberto Scarcella
Praça Tiradentes
L’altra storia legata a Ouro Preto la si conosce meglio se ci si allontana un po’ dal centro, procedendo verso una delle poche miniere in disuso ancora visitabili, quella - appunto - del Chico Rei, un ex re del Congo deportato in Brasile con la sua famiglia per fare da schiavo nelle miniere, che sarebbe riuscito con il duro lavoro e con l’intelligenza a ricomprarsi la libertà. Si narra infatti che il Chico Rei nascondesse parte dell’oro che trovava nelle miniere tra i capelli. Oro che riuscì ad accatastare e a rivendere in quantità tali da comprarsi prima la sua libertà e poi un’intera miniera per sé, con i cui proventi comprava poi la libertà di amici e parenti. Una storia la cui veridicità da queste parti non interessa a nessuno e che fa perfettamente il paio con la brutta fine di Tiradentes: perché ciò che non si riusciva a ottenere nella realtà si poteva sempre piegare ai propri desideri nella fantasia per tramandare la speranza in attesa che le due storie s’incontrassero. La schiavitù in Brasile è stata abolita il 13 maggio 1888 e ancora oggi la leggenda del Chico Rei viene raccontata nei teatri, nei libri, nelle scuole e al cinema.
© Roberto Scarcella
Miniera del Chico Rei
Fuori dalla miniera c’è una piccola statua di quello che agli occhi di un europeo sembra un Piccolo Principe con la pelle nera. Nelle vie intorno si aggirano invece gli unici personaggi dall’aria non proprio rassicurante di tutta Ouro Preto, sono (o dicono di essere) guide turistiche (non autorizzate) che ti propongono escursioni dentro miniere non meglio identificate (pubblicizzate come “la più grande”, “la più bella”, “la più spettacolare” e cose del genere) a qualche centinaio di metri di distanza da dove vanno tutti gli altri. Insomma, si tratta di andare con uno sconosciuto in un posto - per di più sottoterra e lontano da sguardi indiscreti - che lui conosce molto bene e tu no. Magari mi sarò perso la miniera più incredibile del Brasile, ma va benissimo così.
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