A me pare che in questa epoca l’armonico e il disarmonico si stiano sempre più separando. Stanno creando due enormi fazioni in lotta fra loro
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Errare, o andare per via senza meta, è una rubrica di racconti. È un gioco con il vuoto, in cui tacciono le certezze, i dati, le cronache, ma parlano i silenzi, gli sbagli, il dietro dell’angolo che non svoltiamo. L’invisibile cessa di essere mostruoso oppure, come unica alternativa, ridicolo. Errare poi è un verbo che suona, facciamo finta che sia solo un fruscio, al massimo un sentore. Errando catturo delle immagini. Ogni cosa mi risulta tragicomica e questo è il carattere di Errare, forse l’unica patria che gli è concessa.
Se ne accorse sulla spiaggia, era appena diventato buio. Fissava un punto nel vuoto, a pochi centimetri dal profilo opalescente del viso di lei, tutta lambita di luce lunare, come caricata di una bellezza estiva e carnale che trascendeva identità anagrafiche ed epoche storiche. E lo sciabordio che emetteva un suono color cobalto, l’arena dorata di granuli grossi, sconfinata e deserta, oltre alla quale cicale e rane non arrivavano al dunque. Fantasmi in volo reclamavano orizzonti con lamenti gutturali, eucalipti a sonagli a sfiorare la volta. Un fiume di acqua mista e verde separava la pineta dal mare, era colmo di piccoli granchi neri usciti da un disegno di Miyazaki. Non bastavano quegli elementi a spalancargli il pensiero. Ma poi lei si accese una sigaretta e lui si accorse subito di come si inserisse bene, la fiamma, nella paletta cromatica regalata dal cosmo. Il fuoco, la notte e il mare, erano visioni concepite per unirsi eternamente.
“Armonico”, disse.
“Mh?”.
“No, nulla”.
© M. Beltrami
Non le raccontò subito di quello sciocco pensiero, ma iniziò ad osservare (e a notare) tutto ciò che appariva inopinatamente ed armoniosamente organico. Abbinamenti estetici e concettuali indissolubili, naturali, resistiti alle umane intemperie e disperazioni. Fuoco, notte e mare. Fiume, bosco e pietra. Castagni, sole e cielo. Alpeggio, vacca e betulla. Fico, mandorlo e ulivo. Pane, pomodoro, olio. Prese ad inventarsene di nuovi, poi lo raccontò a lei e insieme iniziarono a giocarci. Lì in spiaggia a bassa voce.
Nei giorni successivi lei iniziò a farlo con gli spazi urbani, con gli artefatti, con ciò che anche l’umano, oltre alla natura, aveva prodotto di organicamente armonioso, capendo la grande legge del paesaggio gentile: mattoni di tufo, portone di quercia, infissi di ferro battuto. Piazza di porfido, campanile spagnolo, bar di seggiole e mazzi di carte. Palla, bambina, bambino. Caffè, tabacco e pensieri. Montagna, vino e canzoni. Goya, febbraio e Madrid.
© M. Beltrami
Non riuscivano a smettere, così a un certo punto era stato inevitabile notare anche le disarmonie, le brutture oggettive. A quel paese quella scemata del “degustibus”, soltanto una frottola postmoderna, certe cose sono inequivocabilmente sbagliate, come altre sono eternamente giuste. Fine. Banca, fila e luce al neon. Alba in alta quota, turista che parla ad alta voce, elicottero. Cane, museruola, uniforme. Ministri, presidente e bandiera. Quanti orrori, quanti errori. Come fa l’umano essere a non considerare un certo gentile paesaggio? Come può, nel suo profondo, non accorgersi di calpestare brutalmente una certa armonia organica, che peraltro è propria anche di molte facoltà umane?
“È l’imitazione del materiale originale che fa schifo”, disse lei.
“Tipo?”.
“Beh, se è dichiaratamente artificiale e ostenta il suo intento senza vergogna, può risultare anche bello, no? È il contesto poi, a definirlo”.
“Tipo?”.
“Allora: prendiamo quello schifo di rattan sintetico. Ma come puoi pretendere di imitare gli intrecci odorosi, caldi, colmi di scoregge di nonni delle seggiole in vimini con dei finti ghirigori di plastica grigia? Suvvia. Se vogliamo proprio fare delle sedie di plastica allora tiriamole lisce, stampiamoci su il marchio di una birra, mettiamole nell’orto o in qualche bar dove suonano cumbia e spacciamole per quelle che sono, no? Delle seggiole di plastica. L’eleganza non si raggiunge con la plastica. Inutile bluffare. Prendi Leone Di Lernia”.
“Leone Di Lernia dici?”, domandò lui affascinato.
“Sì, era molto amato soprattutto perché non si spacciava per quello che non era. Non voleva mica essere Faber. Leone armonico, rattan sintetico disarmonico”.
“Sì. Ma come traduciamo questa intuizione in qualcosa di minimamente utile al genere umano?”.
“Non saprei, ma ci sono modi di fare che si manterranno eternamente belli e sani. Come una fiamma, come un pino”. “Tipo?”.
“Ma che ne so, tipo quando non ti spacci per quello che non sei, quando non parli troppo”.
Lui ci pensò su un attimo e poi le rispose: “A me pare che in questa epoca l’armonico e il disarmonico si stiano sempre più separando. Stanno creando due enormi fazioni, due giganteschi insiemi umani che presto o tardi si sfogheranno in una globale lotta per la sopravvivenza”.
“Come li vogliamo chiamare questi insiemi agli antipodi?”. “Non so: umani e fascisti? Resilienti e decerebrati? Dignitosi e ignoranti razzisti?”.
“Senti caro, è iniziato tutto con una fiammella sulla spiaggia, di notte, non sciupiamoci la giornata, se iniziamo a parlare di massimi sistemi siamo fottuti”.
“Sì, concordo mia cara. Quercia e plastica. Vento e aria condizionata. Amore e pornografia”.
“Bravo, armonico-disarmonico. Ma rimani sul basilare, sul materico, è meglio. Continua se ti va”.
“Sì, mi va: rumore di scooter, suono di zoccoli di asino. Stretta di mano, riunione online. Cane in carne e ossa, Tamagotchi. Mujica, Salvini. Zumbi dos Palmares, Bolsonaro”.
“No! Fermo, stai nuovamente prendendo la deriva”.
“Non ne posso fare a meno amore, sai che scendo sempre nei meandri delle cose che penso”.
“E allora conceditelo, fai pure, ma senza esagerare, non è necessario. Non serve”, disse infine lei.
Ma lui non resistette: “Lotta armata, polemica sui social. Armonico vita, disarmonico morte”.
“Alt! Basta, sei troppo in là, Santo Cielo, lotta armata? E siamo già arrivati alla vita e alla morte? Torniamo immediatamente a vimini-finto rattan, ti prego, e cerchiamo un’osteria, hai bisogno di buon vino”.
Lui fece di sì ciondolando la testa colma di concetti e pensieri apocalittici. Si incamminarono verso le viuzze di pietra illuminate di giallo da lampioni in ottone e vetro opaco. Tacevano. I loro passi lambivano il selciato, sembravano non mantenere alcuna traiettoria, alle volte le loro spalle si toccavano e i loro corpi sembravano rimbalzare, ponevano una distanza fra loro e strusciavano appena, stanchi, contro gli intonaci azzurri e gialli delle abitazioni.
Quel gioco li aveva stancati, ma si mantenevano armonici.
© M. Beltrami