Ci disse subito che gli piaceva bere. Viveva in strada o in letti di fortuna, ogni tanto suonava sui marciapiedi con alcuni amici. Era un punk
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Errare, o andare per via senza meta, è una rubrica di racconti. È un gioco con il vuoto, in cui tacciono le certezze, i dati, le cronache, ma parlano i silenzi, gli sbagli, il dietro dell’angolo che non svoltiamo. L’invisibile cessa di essere mostruoso oppure, come unica alternativa, ridicolo. Errare poi è un verbo che suona, facciamo finta che sia solo un fruscio, al massimo un sentore. Errando catturo delle immagini. Ogni cosa mi risulta tragicomica e questo è il carattere di Errare, forse l’unica patria che gli è concessa.
Quel giorno non mi fregava di lavorare. Non mi sentivo svogliato, ma neppure invogliato. Quel giorno non mi fregava di lavorare, punto. Non ci pensavo neppure al lavoro, anche se ci stavo andando. Raggiunsi il parchetto del ritrovo verso le sette di una mattina qualsiasi. Non sentivo nulla, nulla nella testa, nulla nello stomaco, al cuore non ci badavo neppure. Nelle cuffie c’era Kurt, erano anni che non lo ascoltavo con tanta ossessione. Per quanto ne sapevo io, Kurt poteva benissimo essere stato l’attesissimo Gesù Cristo. Vista la situazione sulla Terra poi aveva preferito spararsi dritto nel cranio. Questi erano i pensieri che stavo facendo quella mattina, mi pare di aver detto tutto su quello che mi succedeva dentro, quella mattina. Parlando del corpo invece, presi posto su una panchina malridotta del parco. Notai subito la presenza di alcuni cocci di vetro e di una notevole quantità di vomito e sangue rappresi, a pochi centimetri dalla panchina, sul prato. Alzai appena le spalle. Sfilai la chitarra dalla custodia e mi tolsi le cuffie, presi a strimpellare senza dare troppa importanza alla musica. Nel giro di cinque minuti mi raggiunsero la Suora e la Vergine Madre. La seconda era una specie di educatrice religiosa laica. Sì, laica, come la cagnetta dello spazio. Laica era anche madre di quattro figli piccoli, ne parlava di continuo. La Suora invece era proprio una suora, veniva dall’Indonesia e prestava i suoi servigi nella stessa fondazione per la quale stavo lavorando io.
Insieme alle due avrei dovuto aspettare l’arrivo degli altri educatori, ci attendeva un’altra lunga giornata da trascorrere tentando di svolgere qualche attività costruttiva con una banda di ragazzi di strada del centro di Cochabamba, Bolivia. Quello in quel periodo era il mio mestiere. Strimpellavo, non cantavo, la Suora e la Vergine Madre mi ascoltavano in silenzio, loro stavano spesso in silenzio. Tutto sommato erano delle brave educatrici di strada, nonostante la parola del Signore intendo. Ma in fondo non è che la applicassero alla lettera, il che mi stava bene. Le reputavo in gamba. E perlopiù tacevano, come me. Strimpellavo una canzoncina triste dei Verve, mi venivano in mente gli anni Novanta, mi sarebbe piaciuto esprimere la cosa alle due adepte, ma non sapevo quanto se ne potevano sbattere loro degli anni Novanta. Io invece ne sentivo la nostalgia, come se il 31 dicembre del 1999, poco prima della mezzanotte, una parte della mia anima fosse stata recisa irreversibilmente. I brandelli di anima non sono code di lucertola.
In lontananza un personaggio in disarmonia con il paesaggio apparve. Era un punk, si vedeva dalle borchie, dal completo di cuoio nero, dai capelli ossigenati pettinati in tante punte sulla testa, era un punk e ci stava parlando, ci stava facendo dei gesti, si stava avvicinando. Qualcosa accadeva. Quando il giovane fu abbastanza vicino per farsi capire, allora capii. Palesemente ubriaco, voleva presentarsi. Beh, ci riuscì. Era cileno, aveva deciso di abbracciare la filosofia punk. Ci disse subito che gli piaceva bere. Viveva in strada o in letti di fortuna, ogni tanto suonava sui marciapiedi con alcuni amici, suonavano punk, era un punk. Alla fine della presentazione, che trovai adeguata e piacevole, il punk mi chiese se a me e alle due fedeli andasse di ascoltare un suo lamento.
Disse proprio così: un suo lamento.
“Un lamento?”. Chiese Laica.
“Esatto principessa, un lamento, una passione, una mia composizione”. Precisò il punk con voce suadente e inchinandosi.
“Certo amico, prendi posto”. Gli dissi allora allungandogli il legno.
“Grazie fratello, reggimi la colazione”. Disse il punk passandomi un sacchetto pieno di chicha, dal quale sbucava una cannuccia insalivata.
La chicha era un fermentato alcolico del mais, una bevanda sacra per gli antichi popoli andini, una bevanda profana e travolgente, opinavo io. Beh, amici, il Chicha (così lo ribattezzai) agguantò la chitarra, si diede una sistemata ai polsini di cuoio con le frange, piazzò le dita su un accordo di puro punk, che coinvolgeva solo le corde più basse dello strumento, ed iniziò a darci dentro con un giro di quattro note pesantissime e rapide. Dopo due giri, piantò un urlo da pantera ferita che mi fece stringere il culo, sgranare gli occhi e che fece saltellare dallo spavento, all’unisono, le due sorelle.
- Yyyyyaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaahhhhhhh -
Dopo il grido iniziò la canzone, caratterizzata da una voce roca ma alta, graffiante e biascicata. El Chicha se lo era studiato per bene il punk.
Il testo era avvincente e volutamente anti-intellettuale, anti-suprematista, anti-democentrista, anti-famiglia, anti-lavoro, anti-cittadinanza. Parlava in prima persona del fatto che lui, El Chicha, aveva una voglia fottuta di bere solo alcool puro, quello al 99% che si usa per pulire i vetri, perché lo si trova ovunque ed è il meno costoso, questo il testo lo ripeteva spesso, come fosse un gingle pubblicitario. Meno costoso. Meno costoso. El Chicha stava gridando al parco e a chi lo udiva che lui si faceva di alcool puro perché non costava nulla, e cantando malediceva i ricchi che sprecavano l’alcool puro per pulire le maledette marmitte delle loro maledette auto veloci, o le merdose vetrate gigantesche degli asili immacolati e sterili di idee dei loro figli-principi. Il Chicha era coinvolto dalla sua produzione musicale, le mani le faceva andare bene e la voce era notevole, notevole davvero. La Suora e la Vergine Madre lo guardavano con la coda dell’occhio, imbarazzate, ma non disturbate, forse perfino divertite. El Chicha ci stava facendo una porca figura, invidiavo la sua energia, la sua voce, invidiavo meno altre cose di lui, questo è pur vero, ma la sua energia e la sua voce: wow.
Il brano volgeva al termine. El Chicha gridò intonato e rabbioso l’auspicio che nel mondo si sprechi meno alcool puro per puttanate consumistiche e capitalistiche tipo l’igiene dei pavimenti nei negozi di telefonia, che lui quel liquido magico se lo voleva bere e come lui se lo volevano bere tanti altri randagi, disposti anche a crepare per strada con gli organi corrosi, ma lontani dalle infide mani dei dottori e dalle estreme unzioni dei maledetti preti, tutti esecutori di un potere infame, spacciatori di paura.
El Chicha mi salvò la giornata, che grazie a quel pezzo divenne incantata di bellezza. Alla fine dell’ultima strofa chiuse gli occhi e cacciò un altro urlo da pantera ferita, acuto, penetrante, ubriachissimo, sporco, totalmente intonato, perfetto insomma. Poi tutto tacque, neppure il tubare dei merdosi piccioni esisteva più. El Chicha rimase con gli occhi chiusi per alcuni istanti, riaprendoli in seguito con lentezza emozionata. La prima cosa che vide fu il mio sorriso, la prima cosa che udì fu il mio applauso, seguito dall’inaspettato applauso della Suora e della Vergine Madre Laica.
Senza parlare mi ripassò la chitarra, si riprese la chicha e tornò sulla sua via, barcollando e alzando verso il cielo due dita tese, il segno della pace. Pensai che per quanto ne sapevo io, pure lui poteva essere lo smarrito Gesù Cristo. Suora e Laica si guardavano ammiccando, forse un po’ confuse, ma rallegrate. Ognuno poteva essere quello che era. Di spazio ce n’era, per tutti, lì a Cochabamba.
“È stato bravo”. Sussurrò la Suora indonesiana.
“Davvero un bravo musicista, e poi che bella la sua voce”. Concluse la Vergine Madre.
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Cochabamba, uno scorcio, dall’alto