Nel cuore del Borneo, con gli Iban alla scoperta dei loro tatuaggi tradizionali che, oltre a proteggere, traghettano le anime nel mondo degli spiriti
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Tatuarsi è diventato comune, è quasi raro trovare qualcuno senza almeno un piccolo segno sulla pelle. Un nome, una data, un simbolo, un disegno. Ma perché lo facciamo? È solo estetica, un gesto di ribellione? Oppure c’è qualcosa di più profondo? Anni fa ho cominciato anch’io a tatuare, ma a un certo punto mi sono fermata. Mi sono chiesta: perché lo sto facendo? Sembrava che tutto si riducesse a immagini appoggiate sulla pelle. E se il tatuaggio fosse qualcosa di più di un’illustrazione permanente? Un legame con qualcosa di antico? Ho deciso di partire per scoprirlo. Un viaggio durato sette mesi, raccontato al presente perché ancora vivo è il ricordo. Un viaggio che continua con gli Iban.
Il terrore arriva sempre prima dell’ago. È un attimo sospeso in cui il mio corpo si irrigidisce e ogni fibra si prepara a scappare. Il cuore martella, la gola si chiude, la pelle si accappona come se sapesse già cosa sta per succedere. È una paura che non posso spiegare razionalmente: primordiale, viscerale, incontrollabile. Agofobia. Non ha nulla a che fare con il dolore, quello lo conosco, lo gestisco. È qualcosa di più profondo, un istinto di sopravvivenza che mi urla di fermarmi, di allontanarmi, di non farlo. Eppure sono qui. Distesa su una stuoia di paglia intrecciata, dentro una longhouse che ospita diciotto famiglie della tribù di cacciatori di teste Iban, nel cuore del Borneo.
Intorno a me, la vita scorre come se il mio tatuaggio fosse solo un dettaglio della giornata. So che la paura passerà dopo il primo colpo d’ago, quando il corpo accetterà l’inevitabile, ma finché quel momento non arriva, il terrore è reale.
Ma come sono arrivata fin qui? Bisogna tornare indietro.
Lo studio di Boy Skolang è piccolo, raccolto, pieno di fotografie ingiallite che raccontano di un altro tempo. Per settimane ho frequentato lui e un gruppo di tatuatori locali, osservato Boy che tatuava, ascoltato discorsi e storie e letto tutto ciò che riuscivo a trovare. Più il tempo passava, più mi rendevo conto che non potevo andarmene senza un segno di tutto ciò sulla pelle.
© L. Ravasi
La scelta del Bunga Terung è avvenuta in modo naturale, senza esitazioni. Questo fiore di melanzana stilizzato è molto più di un simbolo decorativo: è il tatuaggio che un Iban riceve quando parte per il suo primo viaggio, un rito di passaggio che racchiude forza, coraggio e trasformazione. Al centro, una spirale rappresenta la “corda della vita”, ispirata alla forma che assumono i girini in una fase di crescita: il primo passo di una metamorfosi. Per me, non poteva esserci simbolo più azzeccato.
© L. Ravasi
Il Bunga Terung
Arrivare alla longhouse non è stato semplice. Non ci si può semplicemente presentare e chiedere un tatuaggio tradizionale. Oggi i tatuatori tradizionali nelle comunità rurali sono quasi scomparsi, spazzati via dall’avanzare della modernità e delle nuove religioni. Tradizioni antiche, considerate relitti del passato, rischiano di sparire del tutto.
È grazie a Louis, un tatuatore Iban che mi ha invitata a conoscere la sua famiglia e la sua comunità di origine, che mi è stato concesso questo privilegio raro. Così è iniziato il viaggio nell’interno del Borneo, fra strade sterrate e lenti spostamenti che sembrano riportarti indietro nel tempo.
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Il tatuaggio tradizionale Iban viene eseguito con la tecnica dell’hand tapping, un metodo antico che utilizza strumenti semplici, ma efficaci. Un ago da tatuaggio viene piegato e inserito in un foro su una sottile bacchetta di bambù. Per fissarlo, si utilizza del nastro adesivo, creando uno strumento rudimentale, ma preciso. Un secondo bastone, più pesante, viene impiegato per colpire ritmicamente la bacchetta che regge l’ago, spingendo l’inchiostro sotto la pelle a ogni colpo. Un tempo, gli aghi erano costituiti da spine vegetali o ossa sottili e l’inchiostro era ottenuto mescolando carbone, zucchero di canna e acqua. Oggi, anche qui, si utilizza inchiostro per tatuaggi moderni.
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Gli strumenti del mestiere
Per un tatuaggio, serve almeno un’altra persona oltre al tatuatore: lo Stretcher, colui che tira la pelle per agevolare il lavoro dell’ago. È un gesto collettivo, come tutto in questa comunità. Tutto è pronto, Louis inizia a colpire la pelle. Quasi non percepisco il dolore, mi rilasso e finalmente posso vedere oltre questa mia paura irrazionale.
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Intorno a me, la vita continua. Io osservo, assorbo tutto. L’aria è impregnata dell’odore del fumo di tabacco e del cibo che cuoce in una pentola poco distante. Alcuni uomini ridono rumorosamente raccontando storie in una lingua a me sconosciuta mentre bevono Lancau, la grappa locale. A intervalli regolari qualcuno allunga il braccio verso di me con un bicchierino che prontamente rifiuto gentilmente toccando il lato del bicchiere come si usa fare.
Davanti a me qualcuno ha trascinato dei materassi nel corridoio e sta facendo un pisolino. I bambini corrono mentre giocano a prendersi nel corridoio. Dietro qualcuno si rilassa guardando video sul cellulare in maniera distratta, altri osservano il tatuaggio in maniera attenta e sembrano soffrire più di me.
© L. Ravasi
Qualcuno mi porge una bottiglietta colma di miele: è per il tatuaggio di un’ape che porto sulla gamba. Dopo un po’ si forma un cerchio di donne di fronte a me con tè e biscotti. La madre di Louis me ne porge una tazza con abbondante zucchero che accetto volentieri, mentre il figlio martella la mia pelle a un ritmo regolare. Un gatto si acciambella vicino a noi, del tutto indifferente all’evento. Non ho mai vissuto un tatuaggio così. Un tatuaggio collettivo.
Per gli Iban i tatuaggi non sono solo ornamenti estetici. Sono simboli di identità, di forza, di memoria. In passato erano perfino strumenti di sopravvivenza. Durante il periodo delle guerre tribali e della caccia alle teste, un tatuaggio poteva decretare la vita o la morte. Portare un simbolo sbagliato significava essere identificati come nemici e rischiare di perdere la testa, fisicamente.
Ma c’è una credenza tra le altre che mi ha colpita. Gli Iban sostengono che i tatuaggi emanano una luce visibile solo agli spiriti. Fungono da protezione contro quelli malvagi e permettono di illuminare la propria strada nell’aldilà. Senza tatuaggi l’anima è invisibile e rischia di perdersi, incapace di attraversare il fiume che conduce al mondo degli spiriti.
In vita, gli Iban collezionano tatuaggi come timbri sul passaporto. Anche in passato erano grandi viaggiatori, attraversavano fiumi, montagne, si spingevano fino all’Indonesia e alle Filippine, a volte anche oltre. E quando tornavano a casa, i loro tatuaggi raccontavano le storie di quei viaggi. Ogni segno sulla pelle era un ricordo, un incontro, un’esperienza vissuta.
© L. Ravasi
Il Bunga Terung prende forma con calma, colpo dopo colpo. Le linee si chiudono e si riempiono di nero profondo. Penso a quanti prima di me hanno ricevuto questo stesso simbolo, pronti a lasciare il villaggio per la prima volta, pronti a dimostrare il loro valore, a esplorare nuovi territori. Il mio viaggio è diverso, ma in fondo il significato non cambia. Anche io sono qui per esplorare, per imparare, per segnare sulla pelle ciò che sto vivendo. Quando il tatuaggio è finito lo osservo sulla mia pelle: è lì, inciso per sempre. Un nuovo inizio, un altro capitolo che si apre.
Poi, Louis mi guarda, sorride e inaspettatamente mi porge gli strumenti. «Vuoi tatuarmi?». Sono sorpresa. È un gesto di fiducia. Rido, ancora sorpresa. Ma non esito. Cambio l’ago, ripetendo i passaggi che avevo osservato, sento il peso della responsabilità tra le mani. Lo Stretcher mi farà da guida. Tutta la comunità si avvicina a osservare, a incoraggiarmi. Louis si stende al mio posto. Io faccio un bel respiro e colpisco cercando la mia melodia nei colpi.
© L. Ravasi
E così, con le mani sporche d’inchiostro, capisco che il viaggio più importante non è quello che attraversa terre lontane, ma quello che ti trasforma dentro. Le tradizioni non si osservano solo da lontano nei musei: si incontrano, si rispettano, si lasciano entrare, si vivono, si proteggono. Sono persone, sono mani, sono occhi che brillano e storie che continuano a camminare. In questa longhouse sospesa tra passato e futuro, mi hanno dato un nuovo nome: Umang, colei che impara in fretta. E così, con un fiore inciso sulla pelle e nuove radici nell’anima, mi dico che forse l’unica cosa da imparare davvero è che vivere significa solo questo: camminare, cambiare, ricordare.
E, ogni tanto, rinascere.
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