Reportage

Non invano. Teatro dietro le sbarre

Lo scorso luglio, la compagnia Opera RetablO è stata invitata a tenere un laboratorio fra le mura del carcere di Secondigliano (Napoli)

( © Opera retablO)
5 ottobre 2025
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Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Lo scorso luglio Opera retablO è stata invitata, su specifica e mirata richiesta, a partecipare a Golden Age, un progetto di TeatrInGestAzione all’interno della struttura penitenziaria Pasquale Mandato di Napoli. Fondata da Ledwina Costantini nel 2008, la compagnia ticinese annovera fra i suoi membri Daniele Bernardi, attore, autore, regista e insegnante di teatro, nonché nostro collaboratore. Ed è proprio attraverso il racconto che quest’ultimo offre a ‘ticino7’ che vi proponiamo un reportage attorno a un’intensa esperienza, che vede coinvolta, assieme alla casa circondariale del quartiere di Secondigliano e al sopraccitato gruppo svizzero, una delle realtà teatrali più interessanti della città partenopea.

Pur non sapendo una parola di russo, ho fondato parte del mio immaginario giovanile sulla poesia del Paese di Puškin. È successo per caso, come molte cose avvengono.

Mentre avvicino il furgone ai cancelli – Ledwina ha guidato per quasi tutto il resto del viaggio – ignoro quanto stanno abbozzando i due artisti che scorgo al lavoro sull’imponente facciata del carcere. Nel vederli, sia io che la mia compagna di lavoro non possiamo non ripensare al nostro comune passato di studenti del CSIA, quando, ragazzi, sotto la guida di buoni insegnanti, trascorrevamo ore e ore a combattere con la materia (cosa che, in fondo, non abbiamo mai smesso di fare).

Cominciamo la trafila per parcheggiare, perché, per chi non lo sapesse, anche la cosa più semplice in prigione ha un suo iter. Mentre consegniamo passaporti e documenti, veniamo raggiunti da Giovanni, amico e collega di lunga data grazie al quale oggi siamo qui. Assieme ad Anna Gesualdi, Giovanni Trono è parte di TeatrInGestAzione, una compagnia teatrale che oltre a produrre spettacoli elabora e cura progetti culturali di grande impatto sociale (uno fra tutti, Altofest: festival arrivato quest’anno a una sua conclusione, ma che, per lunghissimo tempo, ha creato veri e propri ponti comunitari fra popolazione e artisti – fra l’altro in più di un’occasione anche svizzeri).


© Opera retablO
Ledwina Costantini e Daniele Bernardi a Secondigliano

Dimensione umana in cornice ferrea

Il nostro compito, per questi tre giorni, è quello di rappresentare uno studio-spettacolo ispirato alla figura di Robert Walser – autore di cui ci siamo occupati nella nostra ultima creazione – e di tenere un laboratorio che coinvolga, al contempo, i detenuti e i loro figli. Lavoreremo in media sicurezza, per la sezione Mediterraneo, dove si trova chi ha commesso quelli che, in Italia, sono definiti i reati comuni: spaccio, rapina, affiliazione ecc. Non avremo quindi rapporti con l’alta sicurezza, né con altro genere di carcerati.

Mentre scarichiamo il furgone scopriamo che a Secondigliano, rispetto ad altre realtà penitenziarie, le cose funzionano piuttosto bene: chi è appena un gradino sotto il 41bis – il regime destinato ai vertici della criminalità organizzata – è coinvolto in numerose attività sociali volte alla rieducazione e al reinserimento. Qui vi sono, oltre a un teatro, a una biblioteca e a un polo universitario, una liuteria, un laboratorio per la realizzazione di protesi odontoiatriche, dei vigneti e un piccolo uliveto. Questo non significa che Secondigliano sia un “resort” dove chi è “ospite” se la passa come se fosse in vacanza o che non si palesino situazioni estreme. Certo è, però, che la dimensione umana, nella cornice ferrea di un programma riabilitativo, appare visibile.

Cominciamo l’allestimento di scenografie e impianti tecnici, tutti rigorosamente passati al vaglio dalla struttura, in un grande salone polveroso, dove campeggia un palcoscenico che decidiamo di non utilizzare per favorire una maggiore prossimità col pubblico. Non avremo a disposizione quelle che abitualmente sono delle vere luci di scena e ci adattiamo a quanto c’è. Come spesso ci accade, pure qui “litighiamo” con le apparecchiature (lavoriamo dal vivo con tablet e pc) che, chissà come mai, nella contemporaneità digitale a volte pare abbiano vita propria.

Mentre l’ora dello spettacolo si avvicina, contrariamente a quanto avviene normalmente il pubblico arriva molto più alla spicciolata, poiché va radunato gradualmente: saranno presenti, coi detenuti, pure i loro familiari, alcuni membri del personale e spettatori provenienti dall’esterno.

Ce ne stiamo lì, già esausti per le ore di montaggio ancora prima di cominciare, in costume, nervosi come sempre, quando ecco che sia io che Ledwina siamo colti alla sprovvista da un’emozione che non sappiamo bene come gestire: entrano i bambini, i figli di chi sconta la pena e aspetta di uscire. Quasi si gettassero in mare, si tuffano nelle braccia dei padri, che a loro volta li riempiono di infiniti baci. Dopodiché corrono tra le sedie della platea che noi abbiamo disposto, animando come con uno zampettare di cani lo spazio dello spettacolo. Alcuni detenuti ci presentano le mogli, i propri piccoli, mentre un po’ frastornati ci prepariamo a quel primo passo sul palco che tante volte abbiamo fatto.

In carcere tutto appare più vivo. E questa non è una formuletta sentimentale, ma un dato di fatto. E mentre sono lì, tra la performance e quel mondo dentro al mondo, mi chiedo se è perché qui, in questo punto della società, dove sono radunati coloro che hanno superato il limite che il vivere civile necessariamente impone in nome di una possibile convivenza, sono in gioco i nodi al pettine della vita stessa.

Luogo politico

«È il luogo che è politico», mi dirà Giovanni alcuni giorni dopo, quando ci prepareremo a salutare chi abbiamo brevemente incrociato nei nostri percorsi. Rifletto e mi sembra che sia come se ci fosse qualcosa di vertiginoso ed essenziale nella questione del crimine (Shakespeare ne è la prova). «Io volevo delinquere» è una delle frasi che Anna, nei suoi lunghi anni di esperienza, una volta si è sentita dire. Come un verso di Genet, quest’affermazione mi rimbomba dentro assieme a quanto aggiunge quando, la sera, discutiamo ancora di teatro e carcere: «Devi pensare che per alcune di queste persone il crimine è come un sentimento».

Seppure naturalmente ignari di Robert Walser, tutti gli spettatori sono interessati al nostro strano studio-spettacolo, che mescola infanzia a quotidiana routine su tempi scenici volutamente non teatrali, tirati oltre il limite.

Un bambino spiega al padre come, secondo lui, il personaggio che interpreto con una lenta camminata rappresenti l’invecchiare dell’uomo, perché associato al suono registrato di una pendola che accompagna il tutto. Nella testa cerco di mettere insieme le frasi di Anna a ciò che vedo: tutto mi appare assurdo e umano, troppo umano. Quando, nei giorni seguenti, avremo modo di conoscere i presenti, le domande e le discussioni in merito non mancheranno.

Speriamo fuori

Ma ad essere protagonisti della parte laboratoriale, un po’ come nella nostra performance sono ancora i bambini che, l’indomani, ci fanno da apripista quando varchiamo i cancelli che li dividono dai padri. Li vediamo camminare oltre i metal detector, gettare la loro piccola ombra a terra. Lontano, intanto, dietro a porte di sbarre, i papà li aspettano con in mano le merende ed è come se ci fosse una strana luce attorno a loro; come se un faro ben puntato ne infuocasse le sagome. Nel corso del laboratorio, tra uno spuntino e l’altro, cauti proponiamo giochi ed esercizi rendendoci conto di quanto l’intero luogo sia intriso di complesse dinamiche interne, con le quali confrontarsi non è affatto scontato. Nei momenti di pausa qualcuno ci chiede: «Allora, cosa immaginavate di trovare qui dentro? Come pensavate che fossimo?».

Quando l’intera esperienza si chiude, altri ancora al congedo ci dicono: «Ci vediamo, ma speriamo fuori».

Ogni tournée, come ogni creazione, ci lascia una profonda stanchezza sulle spalle, poiché seppure il nostro sia un lavoro che ha il privilegio della libertà, il prezzo di questa sono precarietà e disciplina. Salutiamo Anna e Giovanni nel piazzale in cui ci hanno accolti e dove, adesso, il murale che al nostro arrivo era in fieri è finalmente concluso: un rosso campo di girasoli sul quale svettano due versi: Non invano hanno soffiato i venti,/ non invano c’è stata tempesta. Davvero non so perché da ragazzo ho fondato parte del mio immaginario sulla poesia russa del ’900.

È stato un caso. Forse, penso sul momento, perché quella mezza quartina è di Sergej A. Esenin ed era giusto che io la ritrovassi qui, in un carcere di una città del Sud.