L’episodio della tirata di capelli dell’ex premier italiano alla giornalista Orefici racconta più di quel che sembra dei meccanismi mediatici in voga
Pochi giorni fa è rimbalzata dall’Italia un’immagine tutta sbagliata, da qualunque parte la si guardi. E che spiega molto bene la deriva dell’informazione attuale, passata dal voler far capire cosa pensa e vorrebbe dire l’intervistato di turno al metterlo all’angolo e in difficoltà per estorcergli le risposte che fanno comodo all’intervistatore.
L’immagine è quella di Romano Prodi, che – dopo aver ricevuto una provocazione travestita da domanda – tira, seppur con delicatezza, i capelli all’intervistatrice, la giornalista di ‘Quarta Repubblica’ Lavinia Orefici. Patriarcato? Paternalismo? Senilità? Tutte e tre? Qualsiasi cosa sia, semplicemente non si fa. Inoltre Prodi ha mentito, sostenendo di non aver tirato i capelli alla giornalista finché non è stato costretto alla retromarcia dopo la pubblicazione di un video inequivocabile.
Seppur mitigato dal suo fare bonario, il suo resta un biasimevole fallo di reazione. Ma come in quei giochi da Settimana Enigmistica in stile “Aguzzate la vista” in cui devi scovare gli errori, accanto a uno evidente ce ne sono altri meno riconoscibili, ma altrettanto marchiani. Che arrivano da lontano e hanno a che fare con la deriva da Far West di un certo giornalismo trasformato in “Mezzogiorno di fuoco”, in cui qualcuno, alla fine, deve per forza stramazzare a terra per accontentare il pubblico e il proprio ego. Dimenticando la lezione di Platone, che ci insegnava come l’essenza delle cose potesse emergere da un dialogo civile, in cui non solo ci si parla, ma addirittura ci si ascolta.
“La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta… lei è d’accordo con questa affermazione?”, aveva chiesto Orefici, omettendo che quelle parole arrivavano dall’ormai dibattutissimo Manifesto di Ventotene e dicendolo solo dopo, quando Prodi, che lo sapeva, si era già inalberato rispondendo: “Mi ha mai sentito dire queste cose? Quelle erano parole di uomini messi in prigione dai fascisti nel 1941. Sono mica un bambino”. La domanda-non domanda era il solito agguato per portare a casa l’ennesima polemicuccia buona per accalorare gli animi degli ultrà della politica e la caldera sobbollente dei social. Funziona tutto così ormai, appiattiti sugli starnazzanti blitz delle Iene.
Nei dibattiti Tv, poi, si mettono a confronto il decrepito fascista col busto di Mussolini e il teenager dei centri sociali con la kefiah, quello che scuoia gli orsi vivi per diletto e il vegano con un ravanello come animale domestico, il guerrafondaio con il colpo in canna e l’ultrapacifista con la chitarra convinto di intenerire Putin cantandogli ‘La guerra di Piero’. Non si cerca più il dialogo, ma due che litigano. Meglio se più di due (Aldo Biscardi docet: “Se parlate in più di tre-quattro per volta poi non si capisce niente”), come ha ricordato uno degli alfieri dello schiaffeggio mediatico, Paolo Del Debbio, a un ospite spazientito dal clima da circo di Rete4 (“Ma dove va? Stia qui. Il dibattito non è mica roba da verginelle”).
Proprio in questi giorni, il misurato Luigi Manconi, su Repubblica, ha fatto un lungo elogio del suo opposto, il mercuriale Vittorio Sgarbi, oggi in cura per depressione. Nell’articolo si legge: “C’è una virtù che Sgarbi coltiva con particolare cura. La violenza esercitata verbalmente verso le idee altrui è sempre indirizzata contro, e solo contro, le idee”. Una falsità bella e buona. Parliamo di un uomo incline all’insulto e alla sopraffazione, che ai suoi interlocutori ha detto più volte “capra” che “buongiorno”. Celebrare un avvelenatore di pozzi è uno di quei segnali che mostra quanto ormai il decadimento del dibattito sia irreversibile.