Al timone del Circolo del cinema di Bellinzona, ha ritirato ieri sera in Piazza Grande il Premio Cinema Ticino: ‘Stentavo a crederci, sono riconoscente’
Il Premio Cinema Ticino, che omaggia una personalità residente nel nostro Cantone che si è distinta in campo cinematografico, è stato consegnato ieri sera in Piazza Grande a Michele Dell’Ambrogio. Negli anni Dell’Ambrogio ha trasmesso efficacemente la sua passione e la sua conoscenza della settimana arte, ha contribuito in modo decisivo a formare le giovani generazioni di cinefili, e ha saputo, al timone del Circolo del cinema di Bellinzona, diffondere quel cinema di qualità che purtroppo, ancora oggi, fatica a trovare spazio nelle nostre sale commerciali.
Ricevere il Premio Cinema Ticino è indubbiamente una grande soddisfazione. Te lo aspettavi un simile riconoscimento?
Assolutamente no. Quando mi è stata comunicata la notizia, stentavo a crederci, anche perché finora il Premio è sempre stato attribuito a qualcuno attivo nella creazione cinematografica (Renato Berta, Mohammed Soudani, Esmé Sciaroni…). Poi, è vero, alla fine, sono riconoscente alla commissione che ha pensato a me, perché è da quasi 50 anni (e non mi sembra vero!) che sono impegnato, su vari fronti, per la diffusione e la conoscenza di un tipo di cinema che non è sempre quello sotto le luci della ribalta.
Prima di studiare cinema a Bologna, ti sei laureato in lettere a Friburgo, avviandoti sulla strada dell’insegnamento. Cosa ti ha spinto poi a rivedere i tuoi piani?
Non è che abbia rivisto i miei piani. La passione per il cinema, nata già ai tempi del Liceo, è sempre stata parallela a quella per la letteratura. Finiti gli studi universitari, ho sempre cercato di abbinare la mia attività di docente con quella di animatore del Circolo del cinema di Bellinzona, iniziata nel 1976, e di critico cinematografico, scegliendo appena possibile l’insegnamento non a tempo pieno, in modo di potermi dedicare anche al cinema.
Ieri pomeriggio al cinema GranRex hai presentato ‘L’Atalante’, il capolavoro di Jean Vigo. Un film che hai scelto personalmente per l’occasione: con quali motivazioni?
Quando mi è stato chiesto di scegliere un film da proiettare nell’ambito del Festival, per diversi giorni sono stato indeciso, perché è come quando ti chiedono qual è il tuo film preferito: ce ne sono centinaia e sceglierne uno significa sempre far torto a tutti gli altri. Poi sono andato a rivedere cosa avevamo proposto nel 1976 nella prima rassegna del cineclub che, con un gruppo di amici, avevamo ripreso dalla gestione precedente, quella di Kiki Berta e Carla Agustoni: vi figuravano due film di Jean Vigo, ‘Zéro de conduite’ e ‘L’Atalante’. Poi, nel 1992, abbiamo organizzato la retrospettiva completa dei film di Vigo (4 film in tutto, due cortometraggi documentari, oltre ai due citati, per un totale di nemmeno 200 minuti realizzati sull’arco di 5 anni prima della morte prematura del regista a soli 29 anni). E nel 2003 abbiamo proposto una rassegna su Michel Simon, che comprendeva anche ‘L’Atalante’. Senza contare che il logo del Circolo che usiamo ancora oggi, anche questo ripreso dalla precedente gestione, ritrae Vigo alla macchina da presa. Tutto questo mi ha spinto a scegliere questo film, un capolavoro assoluto nella storia del cinema, un film visionario e poetico, massacrato dalla censura e che si è potuto vedere a Locarno in una splendida versione restaurata.
Qual è l’idea di cinema in cui più ti riconosci?
Mi riconosco in un’idea di cinema che sappia andare oltre il puro intrattenimento, che induca lo spettatore a una riflessione su sé stesso e sul mondo in cui vive. I film che mi interessano possono essere film di genere o altri che li trascendono, poco importa che siano commedie o drammi, ma devono servire, come diceva Fassbinder, a “liberare la testa” Credo fermamente che il cinema debba essere una forma d’arte, non uno strumento di evasione dalla realtà.
Oggi è ancora possibile per un festival difendere un’idea forte di cinema, o prevale l’esigenza di assecondare le nuove tendenze e di soddisfare il palato del pubblico?
L’imperativo categorico per ogni festival dev’essere quello di promuovere un cinema di qualità, un cinema che abbia dignità artistica. La soddisfazione del pubblico è certamente auspicabile, ma non deve condizionare le scelte che si fanno, se no si finisce per accettare compromessi che non fanno bene a nessuno. Il Festival di Locarno, nel panorama dei festival internazionali, ha una sua caratteristica che lo differenzia da tutti gli altri: da una parte c’è la sua vocazione per la scoperta e la valorizzazione di nuovi autori, dall’altra la necessità di proporre film in Piazza grande per un pubblico più vasto, non necessariamente composto di soli cinefili o professionisti del settore. Conciliare questi due aspetti non è cosa facile e purtroppo non sempre a Locarno si è riusciti a farlo nel migliore dei modi, dimenticandosi che la qualità dei prodotti va anteposta alle supposte aspettative del pubblico, e rimanendo perciò spesso vittime di una sorta di schizofrenia nelle scelte programmatiche.
Quali sono i ricordi e le esperienze che il Film Festival ti ha lasciato negli anni?
Ho sempre amato il Festival e ho bellissimi ricordi di esperienze fatte e di film visti nelle varie sezioni, anche se nel passato non ho mancato di esprimere alcune mie considerazioni critiche di fondo, raramente ascoltate. Se proprio devo ricordare qualcosa con particolare piacere, è quando negli anni 80 sono stato animatore di Cinema e Gioventù: nella mia mente sono ancora indelebili alcuni incontri memorabili, con Nanni Moretti, Daniel Schmid, István Szabó...