Il Tribunale cantonale amministrativo ha respinto il ricorso dell'insegnante evocando la Lord. Il legale: ‘Non si è andati a fondo del caso’
Il docente della Spai di Mendrisio non potrà tornare in classe, dai suoi studenti, come sperava. Alcune settimane or sono il Tribunale cantonale amministrativo (Tram) ha respinto infatti il ricorso che Roberto Caruso aveva opposto al licenziamento ratificato dal Consiglio di Stato nel settembre dell’anno scorso; mettendo fine in buona sostanza a una carriera lunga oltre un trentennio. Nulla da fare, dunque, per l’insegnante, che per più di un anno si è battuto per i suoi diritti, al suo fianco l’Ocst e i suoi stessi alunni, scesi in campo pubblicamente a sua difesa e sostegno. I giudici del Tram, in prima battuta, nell’agosto di un anno fa, avevano annullato la sospensione – calata dal Dipartimento educazione, cultura e sport (Decs) a pochi giorni dalla fine dell’anno scolastico 2023-2024, preannunciando la fine del rapporto di lavoro – e, nel rigore della forma, avevano bacchettato il Cantone per non aver dato al professore di elettrotecnica la possibilità di dire le sue ragioni. Oggi nel nome di quella stessa forma – o meglio dell’interpretazione della legge – non sono entrati, invece, nel merito delle sue argomentazioni e hanno confermato la decisione del governo. A pesare sono stati la rottura del rapporto di fiducia tra dipendente e datore di lavoro e in particolare l’articolo 60 della Legge sull’ordinamento degli impiegati dello Stato e dei docenti (Lord), che oltre a evocare l’oggettività dei fatti, fa leva altresì sulla soggettività delle circostanze. Giunto sin qui ora il docente ha un’unica via d'uscita: appellarsi al Tribunale federale. Possibilità che è ancora al vaglio.
Da parte sua il Consiglio di Stato, da noi interpellato, in una nota conferma di aver "preso atto della sentenza del Tribunale cantonale amministrativo" giusto oggi, mercoledì, nel corso della sua seduta canonica. Verdetto che non è ancora cresciuto in giudicato, di conseguenza, si precisa, il governo "si esprimerà quando risponderà agli atti parlamentari pendenti; fino ad allora non saranno rilasciate dichiarazioni".
Come ha dimostrato fin dal primo momento, Roberto Caruso non si sottrae: è lui stesso a confermarci l’epilogo delle sue peripezie. «Ritengo doveroso – ci dice – condividere anche l’esito dell’ultima sentenza». Certo non nasconde la sua delusione: «Sono amareggiato, è indubbio. Rispetto questo dispositivo per senso civico. Resto convinto, in ogni caso, che un esito diverso avrebbe potuto rappresentare qualcosa di giusto e di buono per la scuola, soprattutto per i miei studenti. Anche per l’anno scolastico che sta per iniziare, dunque, non tornerò in aula. E mi dispiace. Su questa vicenda potrei dire molte cose». La prima, di sicuro, può riguardare le conclusioni del Tram, che possono apparire di segno opposto al primo verdetto. «Il mio, di fatto, è stato un procedimento di carattere amministrativo. Non nascondo – ammette Caruso – che fatico a digerire l’ampiezza del potere di apprezzamento che nel pubblico ha il datore di lavoro e che anche un tribunale fatica a rimettere in discussione. Paradossalmente è più protetto un dipendente del privato. Tutto, in altre parole, pare essere in mano al ‘re buono’. L’articolo 60, infatti, prevede che il rapporto di fiducia possa interrompersi ‘per qualsiasi circostanza, oggettiva o soggettiva’. Colpisce proprio la disgiunzione, che permette valutazioni basate su impressioni personali anziché su fatti concreti. Nel mio caso, più che di una reale interruzione del rapporto di fiducia, si tratta di un’azione punitiva, priva di fatti comprovati. Regolamentazioni che ammettono un così grande potere alla soggettività, dovrebbero anche idealmente assicurare la purezza di cuore e la finezza d’intelletto di chi effettivamente le esercita. Di fatto, il mio licenziamento è stato voluto dai funzionari del Decs sulla base di circostanze soggettive dichiaratamente non comprovate e ciecamente ratificate dal Consiglio di Stato. Su tutto resta il messaggio più bello: la vittoria morale l’abbiamo già portata a casa. Soprattutto grazie ai ragazzi e a chi mi ha testimoniato solidarietà e affetto. Sul piano umano è stato un periodo arricchente».
Sin dall’inizio ha parlato di “azione punitiva” nei suoi confronti, cosa glielo fa credere? «Penso che il mio allontanamento vada letto all’interno di un percorso fatto di episodi connessi, modi diversi di pensare e agire – ci risponde il professore –. Non ho mai avuto timore di sollevare questioni scomode, porre domande dirette ai superiori, evidenziare contraddizioni, tutelare gli studenti. Negli ultimi anni si è diffuso un clima di apprensione, in particolare nell’ambito delle professioni elettrotecniche. Ho più volte affrontato questi temi con la direzione e, nel 2022, insieme ad alcuni colleghi, ho inviato un dossier al Dipartimento. Sono seguite ulteriori richieste di intervento. Nel marzo 2024 anche una dozzina di docenti, tramite l’Ocst, ha chiesto di essere ascoltata. A questo si aggiungono le segnalazioni pubbliche di studenti ed ex studenti. Le problematiche evidenziate riguardano aspetti deontologici, organizzativi e relazionali. Ma soprattutto ho ricevuto da molti studenti racconti di comportamenti da tempo lesivi della loro dignità e personalità. Ho chiesto tutela per loro, secondo le direttive del Decs, senza successo. Ho insistito con franchezza, mai con toni offensivi. Dopo mesi di attesa, la risposta è arrivata: ammonimento, sospensione, licenziamento. Mi dà fastidio – ribadisce il docente – che le accuse che mi sono state mosse non siano state circostanziate. È stato scritto dal Decs stesso che non hanno prove, ma credono nella linea dei funzionari. Mi sarei aspettato, quindi, che il Tram entrasse nel merito della vicenda. Ad esempio, sono stato accusato di aver scritto 58 email sull’arco di un anno e mezzo al direttore, ovvero 3 al mese di media. Del resto, non ricevevo risposta. Senza dimenticare che ero docente mediatore e che a fronte di una sessantina di ‘conflitti’, oltre la metà era cagionata dalla direzione. Per non parlare delle accuse di manipolazione degli studenti o di creare delle tensioni».
Al di là dell’appellarsi o meno all’Alta Corte, come vede il suo futuro? «Per me questo epilogo non è una sconfitta e, in caso contrario, non avrebbe rappresentato una vittoria – commenta Roberto Caruso –. Credersi vittoriosi può trasformare un concetto come la vittoria in qualcosa di irrazionale, come supremazia, sopraffazione o arroganza, sentimenti che non mi appartengono. In questo contesto, per me, vittoria e sconfitta riguardano ciò che è giusto e sbagliato. Da questo percorso, lo ribadisco, traggo almeno due considerazioni opposte ma significative: un preoccupante messaggio e un monito ai docenti – che ‘Il capo ha sempre ragione’, a prescindere –, e il valore del supporto ricevuto. Infatti, l’impegno dei ragazzi, insieme al sostegno di colleghi, politici, tante persone e dell’Ocst, è stato prezioso e costante. Chissà, magari anche da questa vicenda il Consiglio di Stato, il Decs e gli alti funzionari trarranno spunto per porre rimedio e riparare la Scuola. Ma forse, più che riparare, si tratta di risanare un sistema. Ci spero, ma non m’illudo».
Come si può leggere, allora, questa sentenza del Tram? «Il nodo sta nell’interpretazione della base legale – ci spiega il patrocinatore del docente, l’avvocato Stefano Fornara –. La cosa che mi ha sorpreso dal profilo giuridico è il fatto che il Tribunale amministrativo, di fronte a una situazione esposta da parte mia nei minimi dettagli, in merito ai motivi dei comportamenti del professore, giudicati irrispettosi, non abbia voluto cercare di capire più da vicino se quanto asserito dall’autorità, ovvero la rottura del rapporto di fiducia, fosse effettivamente giustificato o meno. Si è limitato a dire che non era necessario approfondire la fattispecie, perché dagli scambi di mail fra la direzione e il docente appare evidente il contrasto. Quindi non serviva aprire alcuna inchiesta amministrativa per giungere alla conclusione che la collaborazione non poteva più continuare. E per quanto severa possa apparire la misura finale, si è rimarcato, è stata preceduta da un ammonimento, che non è bastato a far ravvedere il dipendente. Insomma, non si è voluto andare a vedere quali fossero i motivi alla base del dissidio e di questo sentimento, che poi è degenerato. Non si è voluto capire davvero; ed è questo che a me dispiace di più. Un altro elemento che lascia perplessi è che in questo caso nemmeno l’età dell’insegnante – 62 anni, ndr – è stata considerata, nonostante la recente prassi del Tribunale federale relativa alla particolare tutela dovuta verso dipendenti di età avanzata. Nessun richiamo al Dipartimento che nulla di concreto ha fatto per disinnescare il conflitto con la direzione e trovare una soluzione alternativa al licenziamento di un docente sulla soglia della pensione».
Il legale, in altre parole, si sarebbe aspettato almeno «una nota critica verso il Decs, quindi il datore di lavoro pubblico per eccellenza, al di là dei vincoli di legge, al fine di esortare, in una prossima situazione, a intervenire e trovare i possibili rimedi prima di arrivare a preannunciare e poi mettere in atto una misura definitiva come il licenziamento. Invece, leggendo la sentenza di tutto questo non c’è traccia: un’occasione mancata. Il punto di vista di cui si è tenuto conto è unilaterale: si è lasciata esplodere la cosa e si è data tutta la colpa al collaboratore, senza reale possibilità di conciliare. E sono bastati una serie di mail e dei toni sopra le righe: ne prendiamo nota, ma è molto preoccupante». Tutto in un contesto delicato quale è quello scolastico.
I ragazzi del professore, dal canto loro, proprio non se l’aspettavano. Quando raggiungiamo Alex, Luca e Luka, non faticano a farci capire che la sentenza del Tribunale li ha “spiazzati”. Loro che già alla conferenza stampa a cui avevano invitato i media, l’ottobre scorso, avevano dichiarato di voler squarciare il velo su una realtà scolastica che li preoccupa. «Cosa proviamo adesso? La stessa delusione che prova il professore». Un sentimento, tengono a precisare, condiviso da tutti gli allievi – quasi 200 in formazione ed ex alunni – che Scintilla studentesca rappresenta «con orgoglio». «È stata una brutta botta – ci confidano –. Se non fossimo stati convinti di quanto detto, non saremmo usciti allo scoperto. Non solo, abbiamo creduto fortemente che la nostra azione potesse smuovere le carte in tavola. Non solo per il nostro professore, ma pure per tutti i problemi che abbiamo sollevato. Problemi che, a oggi, non sono stati risolti. Non è cambiato nulla; le segnalazioni da parte degli studenti su comportamenti inadeguati da parte di docenti e dirigenti continuano. Semmai la situazione è peggiorata: siamo già ai minimi storici a livello di interesse per la scuola. E ci sentiamo di dire che questa situazione interessa in particolare gli istituti tecnici. A questo punto – si fa notare – ci domandiamo se le persone che il settembre di un anno fa ci hanno invitato all’incontro a Bellinzona, con la direttrice del Decs Marina Carobbio, ci abbiano ascoltato per davvero. Dove sono finite le nostre domande e le nostre segnalazioni? Ci viene da pensare che quell'incontro sia stato un pro forma. La scuola, però, non può silenziare certi problemi. Ma c’è di più: come detto alla direttrice del Decs, a nostro parere la scuola prepara male, basta vedere i risultati degli ultimi esami».
Tornando al verdetto del Tram, ci spiegano di aver «nutrito delle speranze concrete e immaginato un esito diverso. Il ritorno del prof in aula avrebbe rappresentato, infatti, non solo un atto di giustizia, ma anche un segnale di cambiamento verso una scuola più vera, più vicina agli studenti, più capace di ascolto. Invece, ci troviamo di fronte a un’occasione persa. E, peggio ancora, a un pericoloso precedente per tutto il sistema educativo». I ragazzi di Scintilla studentesca non hanno paura di esprimere tutta la loro “indignazione”. Di fatto, ci confermano, «troviamo inaccettabile che una persona che si è spesa per il bene degli studenti, che ha cercato con insistenza e schiettezza il supporto dei superiori, venga considerata scomoda dal Dipartimento. A nostro avviso, e non solo nostro, questa vicenda dimostra come, troppo spesso, le simpatie personali, la difesa delle posizioni di potere e l’obbedienza cieca pesino più del benessere degli allievi. Ma la scuola, di chi è? Per chi è? E ora, dopo questo licenziamento confermato, chi tra i docenti avrà ancora il coraggio di dire ‘no, così non va bene’?».
Non di meno Scintilla studentesca non si perde d’animo, consapevole che esporsi ha richiesto del coraggio («e un pizzico di incoscienza») – viste le pressioni ricevute –, e mette sul tavolo una proposta all’indirizzo del Consiglio di Stato: «Chiediamo al governo di tornare sui propri passi e di fare un gesto concreto, dando un segnale di giustizia e responsabilità: riassumere il professor Caruso. Non solo per sanare un’ingiustizia, ma per dimostrare che le istituzioni possono ancora riconoscere i propri errori, mettere al centro gli studenti».
A lasciare l’amaro in bocca è poi la sensazione che gli studenti non siano davvero al centro dell’attenzione del sistema scolastico. «Siamo stati ricevuti, è vero. Ci hanno sentito. L’impressione, però, è che alla fine si sia fatto il minimo sindacale. Rilanciando la palla nel nostro campo. Ma, ci chiediamo, interessa davvero di noi studenti? Eppure abbiamo cercato con tenacia il dialogo. Forse con un po’ di ingenuità, eravamo convinti che parlare, spiegare, confrontarsi, avrebbe portato a una soluzione condivisa. Invece, ci siamo trovati di fronte a un muro. Probabilmente lo stesso contro cui ha sbattuto anche il professor Caruso. È demoralizzante. Questa vicenda, che sentiamo nostra, si inserisce in un quadro più ampio: quello di una scuola che sembra voler preservare le proprie comodità a scapito del futuro di chi la vive davvero. Il licenziamento del prof, ai nostri occhi, è stato il modo più comodo per eliminare un ‘problema’. Ma se lui è un ‘problema’, allora lo siamo anche noi».
Ecco che questi ragazzi oggi hanno ancora un sogno. «In effetti, passiamo almeno un quarto della nostra vita in formazione: quel tempo dev’essere ben speso. Vogliamo una scuola con dirigenti e docenti competenti, presenti, trasparenti, educati e altruisti. Vogliamo un’istituzione che metta al centro la formazione, il rispetto e l’empatia. Un luogo dove la fiducia degli studenti conti davvero qualcosa». Una cosa è certa, ci dicono, «continueremo a lottare per una scuola più giusta».