laR+ Culture

La creatività ha bisogno di giocare con le regole

La Biblioteca cantonale di Bellinzona dedica una mostra, e tre incontri, all’Opificio di letteratura potenziale, fondato 35 anni fa

Nel labirinto delle parole
4 ottobre 2025
|

Un ingegnere appassionato di enigmistica e due professori di letteratura francese: se pensate che da un simile incontro non possa arrivare nulla di interessante, o peggio che sia solo l’inizio di una barzelletta, la mostra inaugurata giovedì alla Biblioteca cantonale di Bellinzona è l’occasione per superare certi (comprensibili e diffusi) pregiudizi su creatività e scrittura.

L’ingegnere era Raffaele Aragona, i professori Ruggero Campagnoli e Domenico D’Oria che a Capri nel 1990 crearono OpLePo, ovvero l’Opificio di letteratura potenziale. Un laboratorio – sarebbe improprio definirlo corrente o movimento – che nella “piazza” della Biblioteca cantonale possiamo scoprire, fino al 13 novembre, in una sorta di labirinto di fili nel quale muoversi tra testi storici (i ‘Cent mille milliards de poèmes’ di Raymond Queneau, con le sue bande che permettono di combinare i 14 versi di un sonetto, arrivando appunto al numero di possibilità del titolo), fotografie, documenti e plaquette con alcune delle opere realizzate negli anni da oplepiani.

L’officina delle parole

«Ci piace sporcarci le mani con le parole, svitarle, smontarle» ha spiegato, durante l’inaugurazione, la presidente di OpLePo Elena Addomine per spiegare l’idea dietro Opificio. Non è una vuota metafora per allontanarsi dai “salotti letterari”, ma proprio l’idea di un lavoro tecnico e artigianale sulla scrittura, considerando regole e restrizioni uno stimolo e una risorsa.

Una piccola dimostrazione la abbiamo avuta con l’ipertrofizzazione di una delle più assillanti “regole” insegnate a scuola: evitare le ripetizioni. Paolo Pergola – che, a conferma della varietà di approcci, è di formazione biologo ed etologo – ha preso alla lettera l’ammonimento della sua maestra delle elementari scrivendo un testo in cui nessuna parola (neppure le congiunzioni e preposizioni) si ripetono. Mentre nei testi normali il “grafico di frequenza” (che mostra con delle barre quante volte è usata una certa parola) è una specie di scivolo più o meno ripido e pericoloso, quello del suo ‘Fuga dalla città’ è una rassicurante pianura. Perché fermarsi alle parole e non evitare di ripetere la stessa lettera nelle parole? Così, riprendendo il celeberrimo incipit de ‘I Promessi sposi’, “lago” va bene, ma già “Como” ha due o e “promontorio” addirittura quattro. Possiamo anche introdurre vincoli matematici più elaborati (e surreali). I personaggi di un racconto possono usare solo parole che hanno lo stesso numero di lettere (pari o dispari) del loro nome. Jean-Paul (8 lettere) usa solo parole pari; la mamma (5 lettere) solo dispari (“Basta con le elemosine!”), applicando le regole della moltiplicazione (“pari per dispari dà pari” eccetera) ai nomi e al vocabolario dei figli.

Stramberie da appassionati di enigmistica (e si potrebbe anche dir di peggio…), ma quei testi così innaturali ma ordinati – secondo un ordine arbitrario ma ben definito e, una volta scoperta la regola, anche riconoscibile – ci mostrano come il linguaggio naturale tenda al caos.

Tornando alle origini, la parola “opificio” arriva da Italo Calvino che nel 1982 la usò in un articolo in memoria di Georges Perec: era un omaggio all’OuLiPo francese, l’Ouvroir de littérature potentielle nato a Parigi nel 1960 per iniziativa del già citato Queneau e di François Le Lionnais, chimico con la passione per la letteratura (e torniamo qui a un singolare ma incrocio di competenze). Ma sarebbe un errore pensare a OpLePo come alla semplice traduzione di OuLiPo – intanto perché, come ha spiegato durante la serata Maria Sebregondi, parliamo di testi intraducibili. E poi perché si tratta di riprendere, adattare e sviluppare un’idea che si scontra con radicati pregiudizi: la creatività non ha bisogno di libertà assoluta, ma di regole precise dentro cui giocare.

Darsi un limite

È un’idea già presente: Marcel Proust, per riprendere un esempio fatto durante la serata, vedeva nella “tirannia della rima” il modo con cui il buon poeta era costretto a escogitare “le sue maggiori bellezze". Gli oplepiani – parola entrata nel dizionario Zingarelli nel 2011 – hanno portato all’estremo questa intuizione facendone un programma sistematico. Le loro regole possono essere morbide o dure, visibili o nascoste, individuali o collettive. Ciò che conta è lo spostamento d’attenzione: non più dal testo al significato, ma dal testo alle regole che lo hanno generato. E che potrebbero generare altri testi: per questo si parla di “letteratura potenziale”. Come ha spiegato Addomine, «nella lingua vediamo più che quello che è, quello che potrebbe diventare se sottoposta a vincoli». È questo sguardo laterale sulla lingua – non come mezzo trasparente per dire qualcosa, ma come materiale da manipolare – che come si è visto unisce scrittori, informatici, matematici, biologi, ingegneri. Oggi sono circa 25 gli oplepiani attivi, più qualche “pigro” che partecipa meno. E c’è una regola curiosa, mutuata dall’OuLiPo francese: non ci si può dimettere dall’associazione se non davanti a un notaio.

Mettersi in gioco

La mostra curata da Joshua Babic e Paola Piffaretti chiuderà, come detto, il 13 novembre con un evento speciale: la presentazione della traduzione del radiodramma ‘Die Maschine’ di Perec e Eugen Helmlé. Ma sono previsti altri due appuntamenti legati ai 35 anni di OpLePo: il 24 ottobre Paolo Albani, poeta visivo e sonoro, dialogherà con Stefano Vassere sul tema del “labirinto di parole”; il giorno dopo, il 25 ottobre, si terrà invece ‘Ri-creazioni’, un atelier di scrittura potenziale curato da Joshua Babic e Paola Piffaretti, perché la letteratura potenziale non è per geni ispirati ma è una tecnica accessibile a chiunque voglia mettersi in gioco.