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Nel mondo di Judith all’Atelier Octopus

La 45enne bellinzonese non vedente ha aperto recentemente un centro di quartiere, dove cucire, far lavoretti o semplicemente scambiare quattro chiacchiere

(Ti-Press)
10 aprile 2025
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Provate a chiudere gli occhi ed entrate in un luogo che non conoscete. Per orientarvi ci sarà una voce, che vi condurrà a un tavolo con degli alimenti sopra. Li toccate e capite che si tratta di un avocado, di un limone o forse un lime. Poi ci sono spezie, ma chiedete conferma perché non ne siete certi, un coltello e una ciotola. Preparate un guacamole con una benda sugli occhi. Difficile? Impossibile no, impegnativo sicuramente. È l’esperienza che hanno potuto fare i partecipanti a una cena al buio organizzata recentemente all’Atelier Octopus, centro di quartiere gestito dalla 45enne bellinzonese Judith Wegmann, aperto lo scorso novembre in via Lavizzari 10, stabile adiacente all’ex Stallone di Bellinzona. «È stata un’esperienza molto bella e io mi sono divertita ad ascoltare i commenti dei partecipanti», afferma Judith. «Per loro è stato piuttosto complicato, per me un’occasione per far scoprire il mio mondo». Per le persone che hanno cucinato i cibi bendate e poi hanno cenato in compagnia al buio è stato così possibile comprendere meglio ciò che una persona non vedente vive quotidianamente. La prima cena è stata molto apprezzata, ora l’idea è di renderla un appuntamento mensile, la prossima è prevista martedì 15 aprile.

Queste cene sono solo l’ultima novità di quanto viene proposto all’atelier: «La mia idea era di aprire un posto a tutta la popolazione, un luogo di incontro senza etichette e senza programma predefinito, dove si possono eseguire piccoli lavori di sartoria o anche solo scambiare due chiacchiere bevendo un caffè», spiega. E così è stato e sta andando bene. «La partecipazione sta crescendo e da questa settimana sono anche più presente dato che la stagione sciistica è finita». Sì, perché Judith è una sciatrice e ha partecipato nelle scorse settimane, come unica atleta ticinese, ai Giochi mondiali di Special Olympics a Torino, tornando a casa con ben due medaglie d’oro. Judith è piena di sorprese e oltre ad andare forte con gli sci ai piedi si destreggia bene anche con le stoffe tra le mani, che taglia e cuce realizzando bellissimi scaldacollo, cuffie colorate, borse e tanto altro ancora. Quando le chiediamo come ha appreso a cucire ci risponde che è autodidatta, cerca le istruzioni in rete e poi prova. L’unico aiuto di cui ha bisogno è un consiglio per la scelta dei colori da utilizzare e come abbinarli. Chi va all’atelier può cucire, ma anche fare dei lavoretti «adesso ne stiamo realizzando alcuni per bambini per Pasqua e pure per adulti che vogliono preparare delle decorazioni», ci dice.

‘Un luogo accogliente dove incontrarsi’

Abbiamo voluto capire cosa pensano le persone di questo nuovo luogo di incontro. «Mi piace molto frequentare l’atelier, è un posto accogliente dove ho l’occasione di incontrare qualcuno e chiacchierare un po’. Magari un giorno mi cimenterò anche nel cucito, ma attualmente preferisco soltanto scambiare due parole», ci dice Dudi. «Ho conosciuto questo atelier grazie al passaparola. Questi punti di incontro senza obiettivi, senza giudizio, senza ambizioni di reinserimento professionale, sono davvero pochi. E per persone come l’utente che seguo, che hanno semplicemente bisogno di vivere qualcosa di diverso dalla realtà dell’istituto, è molto positivo cambiare ambiente e vedere altre persone», evidenzia la curatrice di un’utente che frequenta un istituto della Fondazione Madonna di Re. «Quando siamo qui ne approfitto per contattare le sue amicizie che vivono nelle vicinanze, in modo che possano incontrarsi. È bello perché possono cucire, disegnare o semplicemente socializzare». Inoltre, aggiunge: «Judith è anche molto autoironica, fa battute e questo contribuisce a creare un bell’ambiente».

Tornando all’esperienza della cena al buio, chiediamo a una partecipante quali sono state le sue sensazioni. «Sono stata bendata prima di entrare nel locale in cui non ero mai stata. È stato difficile perché non conoscevo il luogo e credevo di essere in una sala piccola e stretta. Invece, quando ho tolto la benda, mi sono accorta che era spaziosa», ci racconta Antonella. «Abbiamo trovato dei prodotti e abbiamo preparato un aperitivo. Ho avuto difficoltà a travasare le cose nei contenitori, mentre chi ha utilizzato le pentole ha dovuto prestare attenzione a non bruciare il cibo. Tutte insieme abbiamo preparato delle lasagne vegetariane, sono venute buone, ma non belle da vedere», ride. «Il tatto ci ha aiutato molto, mentre con l’olfatto siamo meno sensibili». Il gruppo ha trascorso quattro ore senza vedere: «Dopo eravamo davvero stanche. È stato impegnativo a causa della concentrazione che ci vuole, ma anche semplicemente tenere gli occhi chiusi per tutto quel tempo perché non siamo abituati». Questa esperienza ha permesso di far capire ai partecipanti ciò che una persona cieca vive tutti i giorni. E anche Judith ha voluto far capire qualcosa che la infastidisce: «A un certo punto siamo uscite dal locale, sempre bendate. Judith ci ha raggiunte ma è rimasta in silenzio. Abbiamo percepito la presenza di qualcuno, ma non sapere chi fosse è stato davvero strano e inquietante. Lei ci ha poi detto che spesso le succede che qualcuno si avvicini a lei senza dir nulla, che la tocchi senza dire chi è. Insomma, noi diamo per scontato che non si debba annunciare la propria presenza ma per chi non vede non lo è», ci dice Antonella. Altro aspetto emerso è che per i non vedenti muoversi in un ambiente conosciuto è più facile, permette loro di spostarsi in autonomia senza troppe difficoltà, mentre negli spazi nuovi è molto più complicato. Infine una curiosità, come mai ‘Octopus’? Apprendiamo che il polpo è un animale che non è stato scelto a caso ma per i pregiudizi che si avevano su di lui; si pensava fosse poco intelligente ma in realtà non è affatto così.