laR+ BELLINZONA

‘C'è stata premeditazione, la pena va confermata’

In appello la Procura chiede la conferma dei 13 anni e mezzo di carcere per il tentato assassinio avvenuto nel 2022 alla stazione Eni di Bellinzona

Polizia al lavoro sul luogo dell’aggressione
(Archivio Ti-Press)
4 giugno 2025
|

Tredici anni e sei mesi di reclusione, in sostanza la conferma della pena inflitta in primo grado nel marzo 2024. È questa la richiesta del procuratore pubblico Luca Losa nel procedimento davanti alla Corte d’appello e revisione penale (Carp) presieduta dalla giudice Giovanna Roggero-Will e riunita a Locarno. La difesa, assunta dall'avvocato Maria Galliani, ha dal canto suo richiesto la derubricazione a omicidio per eccesso di legittima difesa putativo, con una pena massima di sei anni e mezzo. Alla sbarra un 53enne giudicato colpevole in prima istanza di tentato assassinio, appropriazione indebita ripetuta e falsità in documenti; ma soltanto il primo capo d’accusa è stato impugnato dal diretto interessato. I fatti, ricordiamo, risalgono al 4 febbraio 2022 quando l’imputato nella stazione di servizio di via Motta a Bellinzona, da lui gestita insieme ai genitori, aveva ripetutamente colpito alla testa con una mazza da hurling un 57enne verso il quale era debitore di 25’000 franchi per un furgone di proprietà della vittima e che il 53enne avrebbe dovuto vendere, ma che invece aveva ceduto, all’insaputa del legittimo proprietario, quale copertura di un ulteriore debito.

‘Minacce premonitrici’

Dopo la chiusura dell'istruttoria dibattimentale, il procuratore pubblico Losa ha ripercorso la vicenda mettendo in evidenza le continue e ripetute dichiarazioni fantasiose, come dimostrato dagli accertamenti degli inquirenti, rilasciate dall’imputato nel corso degli interrogatori. «Egli continua a ritenersi vittima di quanto accaduto, affermando di essere stato aggredito e di aver agito per difendersi, nonostante la persona da lui più volte colpita alla testa abbia subìto la frattura della calotta cranica e seri danni cerebrali». Secondo l'accusa, insomma, quel 4 febbraio di tre anni fa l'imputato, che aveva dato appuntamento al suo creditore attirandolo nel magazzino della stazione di servizio, l'aveva fatto con l'intenzione di uccidere e liberarsi così del problema che lo assillava da oltre un anno. D'altra parte quella di “spaccare la testa” non era un'idea nuova per l'imputato, come ha ricordato il procuratore dando voce a una serie di messaggi whatsapp con i quali il 53enne, già nei mesi precedenti ai fatti, aveva in più circostante minacciato altre persone (non la vittima). «Minacce mai poste in essere, ma tristemente premonitrici di quanto sarebbe poi accaduto di lì a pochi mesi».

‘Memoria a geometria variabile’

L'efferratezza del crimine, secondo Losa, è dimostrata da numerose evidenze, non da ultimo dal fatto che l'imputato, dopo aver colpito sette/otto volte la vittima, anche quando questa era già a terra, si è cambiato i pantaloni sporchi di sangue e, accortosi che il 57enne era ancora vivo, lo ha colpito un'ultima volta, come dimostrano le piccole tracce di sangue rinvenute dagli esperti anche sul secondo paio di pantaloni. L'accusa ha altresì ricordato come tutti i riscontri siano frutto del lavoro degli inquirenti e non certo della collaborazione dell'imputato, «la cui memoria è strumentale e a geometria variabile. Si ricorda perfettamente ogni movimento della vittima, ma sostiene di non rammentare, o si dice confuso, quando si tratta di spiegare le proprie azioni». Amnesie, per altro confutate da una perizia psichiatrica, secondo la quale l'imputato dissimulava le sue dichiarazioni in base alla convenienza.

«La colpa dell'imputato appare di estrema gravità – ha concluso il procuratore pubblico Losa –. Ha agito a sangue freddo, con modalità subdole e perverse. Solo il caso (l'intervento di un passante che ha allarmato la polizia e la decisione di un agente di entrare nel magazzino, ndr) ha fatto sì che la vittima sopravvivesse. Non si riscontra alcuna attenuante di sorta». Da qui, la richiesta della conferma della pena inflitta in prima istanza.

‘Conseguenze ancora attuali’

Marco Masoni, legale della vittima, dopo aver ricordato alla corte le parole con le quali il suo cliente (oggi 61enne) aveva descritto, alla vigilia del dibattimento in prima istanza, le conseguenze psicologiche e fisiche della violenza subita, ha ricordato come ancora oggi, a oltre tre anni dai fatti, non si sia completamente ripreso. Nel merito dei fatti, l'avvocato Masoni si è trovato pienamente d'accordo con l’esposizione presentata dalla Procura, sottolineando come l'imputato abbia agito «con brutalità e cattiveria», il che, aggiunto alla premeditazione, non «può che configurare il reato di assassinio». Masoni ha di conseguenza richiesto la conferma della pena di primo grado e di un risarcimento di 40'000 franchi per torto morale, in subordine di 30'000 franchi come già stabilito dalla prima sentenza.

‘Nulla dimostra la premeditazione’

Di parere sostanzialmente diverso l'arringa difensiva, la quale ha cercato di sottolineare punto per punto le incongruenze del primo verdetto, pur senza voler sminuire la gravità delle azioni messe in atto dall'imputato. Il quale, però, prima di quel 4 febbraio mai si era dimostrato violento. Molte parole, un mare di bugie, ma mai un passaggio a un atto violento vero e proprio. Certo, in quel periodo la sua vita era caratterizzata da una dipendenza da trading online e da problemi di alcolismo, ma nel suo agire non sussistono prove di premeditazione. . «Anzi, è plausibile che quel fatidico giorno, una volta accortasi che i soldi non c'erano, la vittima sia diventa nera di rabbia. Ed è invece poco plausibile che, vistosi preso per l'ennesima volta per i fondelli, si sia limitato a spingere il mio cliente per poi voltarsi e uscire dal magazzino». Anche perché i segni riscontrati sul corpo dell'imputato lasciano supporre che tra i due sia nata una colluttazione. «Non vogliamo sostenere che la colluttazione sia stata ad armi pari, ma le prove dimostrano che una colluttazione c‘è stata». E quindi non è possibile che la vittima sia stata colpita a tradimento quando si trovava girato di spalle.

Lo spegnimento preventivo delle telecamere di sorveglianza della stazione di servizio, la mazza da hurling appoggiata sul tavolo del magazzino (per altro utilizzato in quei mesi quale abitazione dopo aver “rotto” con la compagna), il cambio dei pantaloni macchiati di sangue e la tranquillità con la quale ha affrontato gli agenti di polizia accorsi sul posto, nulla di tutto ciò, secondo la difesa, può indurre a supporre che quel giorno l'imputato abbia volontariamente attirato in trappola la sua vittima con l'intento di ucciderla. E se non c’è stata premeditazione, la pena deve essere commisurata e non superare i sei anni e mezzo, dedotti ovviamente i 40 mesi già scontati.

La sentenza verrà comunicata prossimamente.

Leggi anche: