La decisione viene confermata dall’Ocst: ‘Le persone coinvolte avevano già ridotto la loro percentuale di lavoro’
Nuovo scossone per la Bally di Caslano. Dopo la riduzione già annunciata nel 2024, il marchio di moda di proprietà del fondo statunitense Regent Lp ha comunicato un’ulteriore ondata di licenziamenti. Trenta posti di lavoro nel settore produttivo saranno soppressi, si passerà da 57 a 27 unità. Un ridimensionamento drastico, anticipato dalla Rsi, che lascia intravedere un futuro sempre più incerto per uno stabilimento che per decenni è stato simbolo dell’eccellenza calzaturiera svizzera.
Intervistato da ‘laRegione’, il sindacalista Ocst Luca Robertini, che segue da vicino la vicenda, racconta il malessere crescente tra gli operai: «Sono 30 operai che verranno licenziati. E loro si aspettano di ottenere come minimo quanto hanno ottenuto i loro colleghi licenziati nove mesi fa: tre mesi di disdetta e tre mesi di buona uscita». Una richiesta che, precisa, non nasce dal nulla ma dalla volontà di mantenere almeno la parità di trattamento con chi ha già perso il lavoro nell’ultima tornata di tagli. I lavoratori coinvolti, in occasione dell’assemblea con il sindacato, hanno sottolineato che «avendo già rinunciato a una parte del loro salario, vorrebbero avere quanto ottenuto dai loro colleghi già licenziati più un ulteriore riconoscimento», spiega Robertini.
Molti dei lavoratori oggi coinvolti avevano già accettato, a dicembre 2024, una riduzione dell’orario di lavoro, nella speranza che l’azienda potesse riprendersi. «Quelli che vengono licenziati adesso in buona parte sono al 70%, perché a dicembre scorso avevano accettato la riduzione di orario dando fiducia all’azienda», sottolinea Robertini che aggiunge: «Tra i 27 lavoratori rimasti, 13 non avranno una percentuale piena».
Il clima in fabbrica è di rassegnazione. «È vero che la gente è stufa. Sono stati mesi di incertezza. Va detto che gli operai preferiscono uscire con un piano sociale degno che rimanere lì», afferma il sindacalista, fotografando uno stato d’animo che mescola delusione e volontà di chiudere dignitosamente un capitolo.
Un ulteriore elemento di complessità riguarda la composizione anagrafica delle persone coinvolte. «La maggior parte degli operai ha tra i 50 e i 60 anni. Sopra i 60 ce ne sono tre o quattro che possono essere accompagnati alla pensione. Gli altri sono comunque persone con una grande anzianità di servizio». In altre parole, persone difficili da ricollocare sul mercato del lavoro, nonostante le competenze accumulate in anni di attività.
La direzione, intanto, sembra voler concentrare gli sforzi solo sulla fascia di mercato più redditizia. «Questa riduzione è volta a mantenere solo la produzione di altissima gamma. Tutto il resto viene spostato fuori dalla Svizzera, probabilmente a calzaturifici esterni», spiega Robertini, lasciando intendere che non si tratta di un trasferimento interno ma di un vero e proprio abbandono del sito ticinese per buona parte della produzione.
Ora la palla passa al tavolo delle trattative. Nei prossimi giorni sindacati e direzione dovranno discutere il piano sociale che accompagnerà i licenziamenti. Le aspettative degli operai sono chiare: non accettare passi indietro rispetto al passato e ottenere un riconoscimento per i sacrifici già fatti. Ma la distanza tra le richieste dei lavoratori e le strategie del fondo americano appare ancora ampia. Quel che resta, intanto, è l’amarezza per una comunità di lavoratori che vede svanire la prospettiva di un futuro in azienda. Una comunità che, come dice Robertini, non chiede miracoli ma almeno dignità.