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‘La chiusura de L'Uliatt? Una scelta dolorosa, ma presa in autonomia’

La Commissione sanità e sicurezza sociale archivia la Petizione popolare partita da Chiasso, ma invita il governo a concertare meglio certe strategie

Un’esperienza lunga 16 anni
(Ti-Press)
30 maggio 2025
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Chiudere L’Uliatt per Chiasso e la regione non è semplicemente abbassare la saracinesca su un luogo di ritrovo. Lo testimoniano le 5’112 firme raccolte tra la cittadinanza con l’intento di salvare l’osteria e il progetto che per oltre 16 anni ha dato modo di fare dell’inclusione sociale una opportunità reale. La Fondazione Diamante non tornerà sui suoi passi. E il Consiglio di Stato le riconosce l’autonomia del suo agire, forte di un contratto di prestazione che per il 2025 assicura 15,6 milioni e che dà modo ai servizi di vigilare sulla qualità e la quantità delle prestazioni. In buona sostanza, la Fondazione ha mantenuto il contingente di posti di laboratorio previsti e offerto al personale e agli utenti delle soluzioni alternative. Nei piani la rinuncia al ristorante verrà controbilanciata dal potenziamento della produzione artigianale. Una constatazione che, per finire, ha fatto breccia anche nella Commissione sanità e sicurezza sociale del Gran Consiglio. La chiusura de L’Uliatt, si legge nelle conclusioni del rapporto che il 10 giugno prossimo introdurrà il dibattito in parlamento – relatore Daniele Caverzasio (Lega) –, “pur dolorosa”, non ha compromesso “la continuità delle prestazioni previste”, rientrando, come detto, “nelle competenze gestionali dell’ente partner”. A questo punto spetterà al parlamento decidere se seguire o meno le indicazioni commissionali orientate a “non entrare nel merito e archiviare” la Petizione popolare promossa da alcune personalità locali, Moreno Colombo, Stefano Tonini, Daniele Raffa, Tiziana Grignola, Edo Cavadini e Luigi Rigamonti.

‘Si rafforzi la pianificazione territoriale’

Letta così la storia de L’Uliatt lascia in molti – a cominciare da chi ha lanciato e sottoscritto l’istanza – l’amaro in bocca. In realtà rimane la forza di una esperienza che ha percorso strade già tracciate da altri e che in Ticino come in altri Paesi, anche a noi vicini, indicano ancora la rotta: in effetti, la struttura, si ribadisce, ha “rappresentato un punto di riferimento”. Resta pure l’invito che la stessa Commissione, pronta a far sua “l’importanza strategica del lavoro protetto come strumento di inclusione e partecipazione alla vita sociale per le persone in condizione di fragilità”, rivolge all’autorità cantonale. Oggi, si annota, occorre “rafforzare la pianificazione territoriale dei servizi sociali, incluse quelle periferiche”, tanto da raccomandare “una maggiore concertazione tra enti e autorità prima di decisioni che impattano sensibilmente sul tessuto sociale locale”. In effetti, lo dice il CdS, il provvedimento è stato preso nel 2024 “senza un preventivo coinvolgimento dei servizi cantonali competenti”. Il che, come anticipato, rientra nelle facoltà della Fondazione Diamante. Non di meno, la Commissione evidenzia come “eventi di questa natura – benché formalmente corretti – debbano essere accompagnati da un dialogo preventivo con le autorità pubbliche e con i territori interessati, al fine di evitare incomprensioni e sentimenti di abbandono da parte della popolazione coinvolta”. Ma c’è di più. “La Commissione ritiene che la chiusura de L’Uliatt non rappresenti una riduzione delle prestazioni previste dal contratto cantonale e che le soluzioni offerte dalla Fondazione per il ricollocamento degli utenti e del personale siano state adeguate. Tuttavia – si annota –, è essenziale che il Cantone assuma un ruolo attivo nella pianificazione e nel monitoraggio della rete dei servizi di inclusione, assicurando una distribuzione omogenea e un accesso equo su tutto il territorio”. In altre parole, per i commissari “il caso de L’Uliatt evidenzia, inoltre, la necessità di rafforzare le sinergie tra enti del settore, istituzioni pubbliche e comunità locali. Tali sinergie sono cruciali per garantire continuità, qualità e radicamento territoriale alle politiche sociali”. E a proposito di alternative, “i servizi del Dipartimento della sanità e della socialità hanno avviato delle riflessioni per valutare altre eventuali possibilità di impiego della struttura in ambito sociale”.

La ristorazione, un settore chiave

La consapevolezza che il lavoro sia “uno dei principali canali di inclusione nella società contemporanea”, dunque, è piena. “Per le persone con disabilità – rimarcano i commissari –, accedere a un contesto lavorativo protetto significa non solo ottenere un reddito, ma soprattutto sviluppare competenze, costruire relazioni, affermare la propria dignità e partecipare alla vita collettiva. È in quest’ottica che i laboratori protetti svolgono un ruolo cruciale”. Ed è qui che si inserisce la ristorazione come “ambito professionale che si presta in modo naturale all’inclusione”. Tutto ciò, si richiama nel rapporto – condiviso da tutti, tranne Stefano Tonini, tra i primi firmatari della Petizione –, avviene grazie all’“alta densità relazionale”, nonché ai “compiti diversificati e adattabili” e al “valore simbolico e culturale del cibo” insisti in questa realtà. La Commissione non manca di citare uno studio del 2010 dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), secondo il quale “i contesti lavorativi basati su attività manuali e relazionali – come la ristorazione – possono avere un impatto altamente positivo sul benessere mentale e sull’autostima, in particolare per le persone con disabilità o con disturbi dello spettro autistico”. Allo stesso modo, si sottolinea, anche l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) mette in risalto i vantaggi dei “settori ad alta intensità di contatto umano”. Insomma, la ristorazione “si configura come uno spazio concreto in cui l’inclusione è visibile, quotidiana e partecipata”.

Gli ‘esempi virtuosi’ e le sfide

Di fatto gli esempi “virtuosi” non mancano. I commissari fanno riferimento, dentro i nostri confini, al ristorante Vallemaggia a Locarno gestito da Pro Infirmis Ticino e al bar Al Bel di Bellinzona sempre della Fondazione Diamante, al di fuori a PizzAut, nata da un’intuizione di Nico Acampora, e ai Ragazzi di Sipario a Firenze. Certo, si rende attenti, “avviare e mantenere un progetto di ristorazione inclusiva comporta alcune sfide: sostenibilità economica, continuità formativa, turnover del personale, adeguamento alle normative”. Ecco che, quindi, serve il sostegno di “politiche pubbliche mirate, incentivi strutturati e un forte radicamento comunitario”. Fare economia sociale è possibile, ma facendo squadra. L’auspicio finale? Che “le istituzioni pubbliche continuino a sostenere tali iniziative attraverso partenariati, visibilità e strumenti normativi efficaci”.