laR+ L’intervista

Sui musei non tramonta mai il sole

L’arte può aiutarci ad avere uno sguardo più ampio sulla ‘crisi dell’Europa’. Ne parliamo con Lorenzo Balbi, ospite oggi pomeriggio dell’associazione NEL

Operai installano il rivestimento dell’Arco di Trionfo a Parigi, parte dell’installazione artistica di Christo, nel settembre del 2021
(keystone)
10 giugno 2025
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Quale futuro attende l’Europa, tra vecchi equilibri mondiali che saltano, conflitti alle porte, nuove potenze che si affermano a livello globale? Mentre gli Stati Uniti riorientano i propri interessi e i propri valori, l’Europa è forse al tramonto? È la domanda, tra il retorico e il provocatorio, che si pone l’associazione Fare arte NEL nostro tempo, per il suo nuovo ciclo di incontri che si aprirà oggi e andrà avanti fino alla fine dell’anno, mettendo a confronto economisti, filosofi e artisti.

Il primo appuntamento sarà oggi alle 17.45 all’Asilo Ciani di Lugano. Ospiti di questo primo incontro, moderato dallo storico Pietro Montorfani, la rettrice dell’Università della Svizzera italiana Luisa Lambertini, che parlerà di università e ricerca nel contesto svizzero ed europeo, e Lorenzo Balbi, direttore del MAMbo, il Museo di arte moderna di Bologna.

Gli appuntamenti successivi saranno il 18 ottobre al Lac con il politologo Giovanni Giorgini e il 6 novembre a Milano al Museo della Scienza con focus su clima e Occidente. Info: associazione-nel.ch.

Lorenzo Balbi, parliamo del ruolo del museo. È cambiato negli ultimi anni?

Il ruolo dei musei come interlocutori della comunità è cambiato radicalmente, e ne abbiamo avuto evidenza durante la pandemia. Oggi un museo viene valutato quasi più per quello che fa fuori dalle sue mura, per quello che interpreta come referente di un territorio, come referente con altre istituzioni, rispetto all’attività canonica all’interno degli spazi museali.

Questo è stato evidente durante la pandemia: dopo pochi giorni dal primo lockdown, ai cittadini è venuto naturale chiedere online che cosa stessero facendo i musei, che tipo di risposte stessero dando all’emergenza. Non è successo lo stesso per i cinema o i teatri: se era ovvio che quando non ci si può più trovare fisicamente dentro un cinema, il cinema chiude, per i musei invece il ragionamento è stato diverso. Ci si aspettava che continuassero a svolgere un ruolo attivo nella comunità.

Questo impone al museo di ragionare come organismo vivente. Non è più il museo-edificio, la casa di una collezione, ma è un interlocutore, un protagonista all’interno di un contesto. Un organismo vivente capace di adattarsi e adattare il proprio ruolo alle mutate condizioni che ha attorno.

Concretamente, come avete interpretato questo nuovo ruolo al MAMbo durante la pandemia?

Abbiamo deciso di disallestire completamente le mostre che avevamo e di trasformare i nostri spazi pubblici in studi e laboratori per artisti, che potessero essere utilizzati da tutta la comunità artistica bolognese. Li abbiamo messi a disposizione soprattutto di quegli artisti che in quel momento non avevano uno spazio dove lavorare.

La risposta canonica che si dà è che “i musei devono creare comunità”: probabilmente tutti i musei ce l’hanno scritto nel proprio statuto. Ma come la creano questa comunità? Solitamente pensano che mettere a disposizione un contenuto al pubblico sia in qualche modo una creazione di comunità: le persone vengono negli spazi, fruiscono del contenuto, escono e creano una comunità. Noi abbiamo sperimentato un modo più diretto: invitare fisicamente delle persone a passare mesi insieme all’interno del museo. Il museo non è solo un ente deputato all’esposizione dell’arte, ma anche interessato alla produzione dell’arte, al lavoro quotidiano con gli artisti. Questo ci ha abituato a pensare a noi stessi in modo diverso: non siamo più quel contenitore in cui si mostrano opere e si fanno mostre, ma il luogo in cui si portano artisti a lavorare insieme, si ragiona su come connettere enti di produzione culturale del territorio. Questo è il ruolo che pensiamo debba avere un museo del futuro.

Il fatto di essere un museo d’arte contemporanea quanto aiuta in questa trasformazione? E quanto invece complica le cose, visto che l’arte contemporanea è spesso considerata ‘ostica’?

Tutte le arti sono state contemporanee e ci sono molti musei che ci mostrano come si possa interrogare l’oggi anche attraverso l’antichità. Penso al Museo Egizio di Torino che ragiona molto sulla cross-medialità e sull’inclusione sociale anche parlando dell’età dei faraoni. Tutto dipende dall’approccio.

Penso comunque che il museo d’arte contemporanea è sicuramente privilegiato perché ragiona sul qui e ora. Se io e lei guardiamo insieme un’opera d’arte contemporanea, partiamo da una consapevolezza condivisa di contesti storici, sociali, culturali e politici che ci permettono di dialogare su quello che stiamo vedendo. Con l’arte antica c’è un gap da colmare. Il tema della mediazione culturale è proprio quello di portare l’interlocutore a un livello di conoscenza tale per poter vivere quel contesto all’interno delle categorie personali dell’oggi.

Quali sono i pubblici a cui vi rivolgete? Chi frequenta di più il museo e chi invece è più difficile da intercettare?

I musei non dovrebbero precludersi nessun tipo di pubblico e infatti da anni parliamo di “pubblici” al plurale. Ci sono pubblici più abituati alla frequentazione museale, come gli over 65 che hanno una frequentazione molto elevata, o il pubblico scolastico che viene portato da scuole e famiglie.

Ma ci sono fasce che sono i cosiddetti “non pubblici”: il pubblico dei licei e degli studenti universitari non di facoltà legate all’arte è ad esempio più difficile da intercettare. Su questo insistiamo con un certo tipo di aggregazione che va pensata non solo sulla programmazione, ma sulla vita del museo in città: a che tipo di festival partecipa, che relazioni costruisce. Gli spazi devono essere fluidi: non solo la mostra o la presentazione dell’artista, ma anche l’aperitivo, la performance, la presentazione del libro, il concerto. In modo che quel pubblico abbia una scala d’accesso alle attività istituzionali.

Per quanto riguarda la rappresentanza delle minoranze e dell’arte femminile, come vi muovete?

Su questo siamo molto attenti. Attualmente c’è una mostra in Project Room sugli archivi queer femministi di Bologna. Abbiamo lavorato per avere una rappresentanza di artiste donne nel percorso della collezione permanente del 50%. Abbiamo ospitato una mostra sull’archivio di Porpora Marcasciano, figura storica del movimento Identità Trans.

Nelle mostre collettive siamo attenti alle percentuali. Quella attualmente in corso ha più donne che uomini. Bologna è una città storicamente molto attenta a queste istanze di rispetto della parità di genere e dei generi, e questo ci porta ad avere una sensibilità adeguata. Nell’arte contemporanea questa sensibilità è sempre più diffusa, mentre in un museo d’arte antica è più difficile perché la storia dell’arte ha privilegiato artisti maschi e bianchi.

Il tema della conferenza sarà ‘il tramonto dell’Europa’. I musei come vedono la progressiva messa in discussione di un approccio eurocentrico?

L’arte contemporanea percorre i tempi in maniera evidente. Basti pensare alle ultime due edizioni della Biennale di Venezia o all’ultima Documenta, che ci hanno insegnato come un approccio eurocentrico sia impossibile e totalmente superato. Brexit, il ruolo marginale dell’Europa nelle attuali guerre: tutto ci insegna come la centralità europea sia ormai indubitabilmente scemata.

Nell’arte questo si avverte da molti anni: artisti e curatori hanno cominciato a guardare ad altri contesti più interessanti, meno antiquati, meno legati a un certo tipo di produzione artistica ormai superata, e dove i mercati emergenti sono più trainanti. L’arte ci aveva già insegnato che le strade erano altre.

Questo tramonto riguarda anche i musei europei? Come uscire da una situazione di crisi?

I modelli ci sono. Perché non portare su scala europea il discorso dei Frac francesi? Perché non fare dei Fondi per l’arte contemporanea europei? Si potrebbero valorizzare luoghi decentrati, fuori dalle città d’arte riconosciute, adottati dalla comunità europea come fondi nazionali che facciano crescere collezioni, sviluppino produzione culturale di artisti europei, si scambino progetti che possano viaggiare dalla Grecia al Portogallo alla Svezia.

L’Europa continua a fare sempre le stesse cose: i musei non si parlano, le città dell’arte contemporanea sono sempre le stesse, le mostre non girano. Sarebbe un’operazione poco costosa che farebbe realmente una rete europea di pensiero sull’arte contemporanea.

In questo sistema che ruolo hanno le sinergie tra pubblico e privato?

Il sistema dell’arte è uno solo, non si può distinguere. Anche le istituzioni private svolgono un ruolo pubblico. Milano non ha musei pubblici d’arte contemporanea, quel ruolo è assolto da fondazioni private. Il tema è come lavorare in network senza accavallarsi e riuscendo a dialogare.

In passato questa collaborazione non sempre ha dato i suoi frutti.

Negli anni Novanta c’era diffidenza, soprattutto da parte del pubblico verso i privati visti come possibili ingerenze. Ora che i fondi scarseggiano, le istituzioni pubbliche devono guardare ai privati per sostenere le attività. C’è meno diffidenza ma bisogna recuperare il gap: i privati ora dicono “ci sto, ma a patto di poter definire paletti, temi, artisti”.

C’è quindi un modo per far funzionare questo dialogo?

Sì: gli interlocutori si devono sentire a proprio agio. Spesso ai privati sembra di essere solo finanziatori, mentre al pubblico le imprese sembrano solo location. Bisogna lavorare a idee di reale coprogettazione dove il privato possa essere a proprio agio nella produzione scientifica del progetto, non solo nel finanziarlo, e il pubblico non retroceda a un mero affitto di spazi per fare cose che non avrebbe mai fatto se non fosse stato obbligato dalla mancanza di fondi.