Contrastare l’omogeneizzazione culturale attraverso un cinema di qualità: la presidente del Festival spiega la sua visione (culturale più che strategica)
Tradizionalmente, è con la direzione artistica che si parla di film, mentre con la presidenza si discute di visioni strategiche e di prospettive. Ma con Maja Hoffmann si è subito iniziato a parlare di cinema, o meglio di quel «cinema di qualità su temi che altrove nel mondo non trovano spazio» da lei citato quando ho abbozzato una prima domanda sulle sue aspettative per questa edizione, la seconda della sua presidenza.
L’intervista si è svolta quando mancavano ancora un paio d’ore al concerto d’apertura con l’Orchestra della Svizzera italiana e poche di più ai discorsi ufficiali della cerimonia di inaugurazione. C’era l’inevitabile tensione che precede l’avvio di una macchina complessa come il Locarno Film Festival, ma anche la fiducia nel fatto che alla fine si affronterà ogni imprevisto – come, ma ancora non lo sapevamo, un malore durante i discorsi ufficiali. C’è, soprattutto, la fiducia nel fatto che Locarno sarà ancora una volta quel «Festival di diversità culturale che si oppone all’omogeneizzazione culturale che vediamo ovunque intorno a noi».
Poi, certo, ci sono anche quelle visioni strategiche alle quali si è accennato. Pensiamo all’esigenza di anticipare le date della manifestazione di cui tanto si era parlato l’anno scorso, così come ci sono le questioni organizzative, logistiche e finanziarie, con decisioni che come sempre fanno discutere e creano qualche malcontento. Malcontenti che, ha spiegato Hoffmann, si è pronti ad ascoltare. «Il che non necessariamente significa dare una risposta che accontenta tutti», ha precisato.
Ma prima di tutto viene il cinema, il suo essere arte popolare e democratica: è quest’ultimo un aggettivo venuto fuori più volte, durante l’intervista, e poi ripreso nel suo discorso all’inaugurazione ed è il termine con cui forse vale la pena condensare l’intervista.
Il cinema, dicevamo, e ovviamente Piazza Grande che poche ore dopo l’intervista ha portato il pubblico a esplorare il Nagorno Karabakh, scoprendo con il film di Tamara Stepanyan (vedi recensione a pagina 18) la guerra tra Armenia e Azerbaigian. «Ho avuto modo di conoscere le qualità del pubblico di Piazza Grande: so che tutti hanno voglia di vedere questi film e che è sempre un momento di giubilo. Spero che la nostra programmazione della Piazza Grande permetta sia la serietà di un’offerta non omologata sia quella magia che viene dal cinema all’aperto».
Possiamo parlare, oltre che di serietà, di responsabilità?
Responsabilità, sì. Locarno ha questa reputazione ed è quello che i programmatori si impegnano a mantenere e che anch’io mi impegno a mantenere.
Perdoni la domanda da colloquio di assunzione, ma come immagina il Festival tra cinque o dieci anni?
Ho avuto modo, con la scorsa edizione e con tutto il lavoro preparatorio per quella di quest’anno, di vedere e capire sempre meglio come funzionano questi processi di scelte artistiche e strategiche. Credo che sarà importante continuare a mantenere questa singolarità del Festival di cui parlavo prima, che evita l’omogeneizzazione culturale e permette la diversificazione, che permette modi diversi di esprimersi. È un punto particolarmente importante, ma una cosa che ho capito è che è importante il contatto con le realtà che circondano il Festival. Per questo ho deciso di mantenere la direzione artistica per tre anni, così da dare la possibilità di avere una programmazione con più respiro. Spesso si ha voglia di fare una cosa oggi, ma ci vogliono tre anni per farla. Soprattutto in Svizzera: non siamo specializzati nel fare le cose rapidamente. Quello che voglio dire è che la visione si trasforma man mano e alla sua domanda, su come immagino il Festival tra dieci anni, l’anno prossimo potrei rispondere dicendole qualcos’altro che sarà un po’ più adatto alla situazione.
La situazione, a livello internazionale, vede l’affermarsi di populismi e sovranismi. Qual è il ruolo che può avere il Festival di Locarno o il cinema in generale in questo contesto? Possiamo parlare di una resistenza culturale?
Penso che esplorare e raccontare ciò che esiste nel mondo sia un lavoro di prospezione da fare in tutto il mondo. Gli estremismi sono il risultato di tante cose: degli algoritmi, delle fake news, del modo in cui consumiamo contenuti premasticati. Penso che contrastare questa omologazione sia uno dei ruoli più importanti del Festival di Locarno: facendo il nostro lavoro di ricerca di voci indipendenti, proteggendole e sostenendole, arriveremo a definire quello che potremmo chiamare un ruolo politico, non il contrario.
Sta dicendo che non c’è una ‘agenda politica’ che precede il lavoro artistico.
Direi che l’unica agenda è la qualità, e questa qualità deve riflettere tutte le voci. E una volta che siamo capaci di mostrare questo, penso che politicamente emergerà una strada. Ma se dico che farò politica e mostrerò solo film di un certo partito, o solo film di un certo Paese, tutto quanto detto prima verrebbe meno.
Però la diversità è oggi un tema politico divisivo: non teme che il Festival venga accusato di essere una manifestazione elitaria e disconnessa dalle preoccupazioni popolari e forse populiste?
No, non lo temo. Penso di voler sostenere in ogni persona il libero arbitrio: non comincerò a fare la predicatrice, non sono un prete che dirà alle persone cosa pensare e cosa non pensare.
Resta il fatto che parliamo di una manifestazione cinematografica in uno dei Paesi più ricchi al mondo. È forse inevitabile essere percepiti come elitari e privilegiati.
Per me il cinema è democratico: il film è davvero il medium per tutti. Per sostenere e per valorizzare i film bisogna fare delle scelte, questo è sicuro, ma queste scelte non devono essere dettate dall’elitarismo. Bisogna sostenere la persona che vuole realizzare un film, che ha qualcosa da dire con quel film e tutto quello che la circonda. E poi, una volta che il film è realizzato, occorre democratizzarlo. Bisogna fare in modo che i biglietti abbiano lo stesso prezzo per tutti, che le proiezioni siano accessibili a tutte le persone, bisogna anche investire sempre di più nella digitalizzazione per dare a tutti la possibilità di vedere i contenuti del Festival: anche questo è un modo di democratizzare il nostro programma.
È interessante che io abbia parlato di popolare e di populismo e lei abbia risposto parlando di democrazia.
Non credo sia utile parlare di populismo e di elitarismo. La mia risposta è quindi che con il cinema dobbiamo democratizzare. Perché, se un domani il settore pubblico non potrà più sostenere la cultura, dovrà fermarsi anche il privato? O al contrario dobbiamo trovare più persone di quelle che lei può chiamare “élite” e che sono pronte a sostenere la cultura?
Penso che il Festival sia una piattaforma che sostiene la produzione cinematografica e, allo stesso tempo, anche la democratizzazione: è questa la parola che credo sia giusto usare.
Non teme che, identificandosi con questa idea di dialogo, di apertura, di diversità, possa avere problemi finanziari? In una società sempre più polarizzata, la politica potrebbe accusarvi di avere un’agenda e alcuni privati potrebbero non voler legarsi a una realtà ‘woke’.
Vedremo. Penso che la ricerca della qualità sia comunque una cosa importante, rispetto a tutto quello che succede nel mondo in questo momento. Penso che sia una linea di condotta che vale la pena sostenere.
Abbiamo parlato di cinema, ma il Festival di Locarno ha anche altre anime. Come trovare un equilibrio?
Me lo sta chiedendo come locarnese o ticinese?
Semplicemente come giornalista che segue il Festival da tanti anni e lo ha visto crescere e cambiare e vorrebbe capire, e spiegare, in che direzioni si muoverà.
Capisco. Ci saranno sempre tanti pareri diversi quante sono le persone, ma per me rimarrà sempre centrale la qualità dei film, la qualità del programma che è la parte visibile dell’iceberg, la parte che vedremo in questi dieci giorni. Il Festival crescerà e spero migliorerà negli strumenti che possiamo offrire – ai ticinesi, agli svizzeri e agli stranieri – per capire meglio il mondo.
Penso che sia questo quello che cerco di portare, è quello che voglio continuare a fare. Il mio compito è rendere il Festival più internazionale, quindi mantengo questa sfida in mente che però non esclude la convinzione che il Festival abbia bisogno di un ancoraggio territoriale importante. Però bisogna capire cosa significa questo ancoraggio territoriale: se si tratta semplicemente di riempire la piazza, i ristoranti e i bistrot dieci giorni all’anno vuol dire che non siamo riusciti a capirci.
Penso che questo secondo anno della mia presidenza sarà utile per cercare di capire un po’ cosa si aspettano gli uni e gli altri. Perché non credo che il compito del Festival sia accontentare tutti: ascoltare sì, dialogare certamente, ma dare una risposta che accontenta tutti, non credo. Quello che voglio dire è: cerchiamo di capire cos’è la città e dopo cerchiamo di vedere cosa possiamo fare insieme.