Anche quest’anno la dieci giorni dei film di agosto ha come colonna sonora flebile e assordante gli spari, i droni, le bombe intelligenti
Qualche mese fa, alla galleria La Rada di Locarno, si è tenuta una mostra dal titolo Guerre. L’artista, Pam Mazzuchelli, ha lavorato per diversi mesi a un’opera dalle dimensioni gargantuesche: più di quindici metri per tre di disegno a carboncino. La prima cosa che si notava era un grande tronco d’albero cavo, dai rami antropomorfi e viscerali; sotto di lui un gigantesco ragno fissava il centro della sala, famelico e in attesa. Ma a restarmi per sempre impressa vi sarà anche la figura demoniaca e saturnina che, con un sorriso da Barbapapà, veleggiava su tutti i corpi sbrindellati, scarnificati, morti. Grande più di un essere umano, cornuto, arancione, col ventre gravido, sembrava volersi cibare dei propri figli.
Forse ha ragione il direttore artistico Giona Nazzaro, quando in uno dei suoi momenti di pacata ispirazione, la barba bio pesantissima, quasi fosse un muezzin che intona la chiamata al cinema, dice “basta che un uomo sia in guerra, e tutta l’umanità è in guerra”. Le sue sono parole che accendono fuochi d’artificio in una notte tra luglio e agosto, sotto un cielo stellato, con un leopardo che si gode lo spettacolo da un baobab fatto crescere da un artista di Arles in mezzo alla Rotonda del Festival. La retorica, solo apparentemente facile e da T-shirt, ci ricorda che anche quest’anno la dieci giorni dei film di agosto ha come colonna sonora flebile e assordante gli spari, i droni, le bombe intelligenti. Le colonne di persone che vengono radunate con la promessa degli aiuti umanitari e poi, come in un Hunger Games qualsiasi, ricevono colpi d’arma da fuoco come riso. È in questi momenti, quando le notizie che arrivano da Gaza i miei occhi cercano di fuggirle, quando leggo dei corpi ucraini che vengono restituiti smembrati, che mi tornano in mente l’albero, il ragno, il Lucifero saturnino di Pam. Il bisogno d’arte si fa impellente, l’intrattenimento politica. Perché l’immagine sulla tela, sullo schermo, sa essere ariosa e terribile come una metafora. Dice una cosa per affermarne un’altra. E in questo gioco di riscatti, ecco che si apre uno spiraglio per la comprensione, forse per la verità. È questa una delle esperienze che cercherò anche in questa edizione del festival, irretito dalle promesse del suo direttore artistico, che conosce la potenza del cinema, sa che “la realtà non può limitarsi alla presa diretta”. Perché se un uomo filma una storia, tutta l’umanità è quella storia.