laR+ Locarno Film Festival

Cuoricini per Jackie Chan

Il GranRex pieno come un uovo per la star di Hong Kong: ‘Sono il Robert De Niro asiatico, forse per questo mi avete dato il Pardo alla Carriera’

Kung Fu Panda(s)
(Keystone)
11 agosto 2025
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Nella Locarno giallonera che si risveglia, i nebulizzatori del vivaio urbano sono già accesi. La Rotonda deserta è già ripulita dagli umani bivacchi della sera prima, ma ancora si respira l’amore al tempo dei Coma_Cose, i Jalisse che ce l’hanno fatta, sabato sera a cantare occhi negli occhi, cuoricini nei cuoricini. Rossi, i cuoricini, come le t-shirt dei fan di Jackie Chan, passato dalla consegna del Pardo alla Carriera in Piazza Grande al GranRex, sede di un talk tutto esaurito da giorni.

La fila per andare a dare amore alla star di Hong Kong inizia all’altezza del Forno di Teo, pizze, focacce, bibite, caffè e brioche vegane. “L’ho visto in un video che si allena, ce la fa ancora. Certo, non è mai stato Bruce Lee, ma ha sempre avuto uno stile suo”, dicono in fila. “Morirò questa volta?”, dirà Chan di lì a poco, sintetizzando al fan Giona A. Nazzaro, moderatore dell’incontro, il proprio rapporto con il rischio calcolato (ma nemmeno tanto) delle acrobazie senza l’utilizzo di stuntman (e chi è più stuntman di Jackie Chan, che ha iniziato come tale), sempre al limite del suicidio. Tra un aneddoto e l’altro sul Nostro, la coda ci rende edotti dell’arrivo di Go Nagai, il creatore di Mazinga Z, in settembre al Japan Matsuri di Bellinzona nel 50ennale di Goldrake, che con Hong Kong poco c’entra ma, se si parla di acrobazie, poco importa se sei hongkonghese o giapponese, umano o cartone. In stile Forno di Teo, la lavagna all’entrata del cinema porta scritto ‘Conversation with Jackie Chan’, con tanto di impronte di leopardo: manca poco alla conversazione, il giusto per un breve flashback di qualche ora, fatto di animaletti di pelouche…

L’annuncio: “Riesce a unire le arti marziali con tempi comici perfetti”. Botte da orbi sullo schermo e il tributo della Piazza Grande a Jackie Chan va in scena. “Sono felice e onorato di essere qui a ricevere questo premio pesante”, dice la star. Una grazie a tutti, dal direttore artistico alla Confederazione tutta, poi un colpo (emotivo) ben assestato: “Mi ricordo quando anni fa mio padre cucinava per un party all’ambasciata americana. Avevo 17 anni, non avevo nulla da fare, sedevo e lo guardavo cucinare tutto il giorno. All’improvviso si girò e mi disse: “Figlio mio, ho sessant’anni e ancora sono capace di cucinare. Sarai in grado di combattere come me quando avrai sessant’anni? Rimasi scioccato, non seppi cosa dire. Ma ora vi dico che oggi ho 71 anni e ancora so combattere”.

Etica e disciplina

Tredici ore più tardi: “Non vi sento!” (applauso). “So che potete fare meglio!” (applauso forte, tendente all’ovazione). Non sono i Coma_Cose bensì il direttore artistico del Locarno Film Festival, uno che saprebbe presentare anche un Monsters of Rock. È lui ad annunciare “un genio che ha cambiato la forma delle cose”, uno che “ha lavorato per un mondo migliore, portando gioia e rischiando l’osso del collo”.

Il lungo vestito nero e i due panda di pelouche della sera prima hanno lasciato il posto a jeans, camicia e sneaker più informali e a una traduttrice. Chan contesta l’etichetta di “esempio di etica e disciplina” attribuitagli in apertura da Nazzaro, che ben sa come i talentuosi a volte campino sulle doti naturali invece di studiare, ma la contestazione riguarda solo la giovane età: “Quand’ero giovane ero pigro, nessuna voglia d’imparare, per questo mio padre mi mandò alla scuola dell’opera di Pechino”. La scuola di Sifu Yu Jim-Yuen a Hong Kong, un condensato di danza, canto e arti marziali, “ordinata e rigorosa” da una parte, ma “se mi trovassi davanti il mio professore oggi, tremerei ancora come una foglia”. Cosa c’è di meglio, in fondo, dell’imparare le arti marziali venendo riempiti di botte?

La storia è nota: Yu Jim-Yuen concede visibilità al giovane allievo nel gruppo delle ‘Sette Piccole Fortune’ e le sue esibizioni lo espongono alle attenzioni degli imprenditori cinematografici cinesi. “Un giorno qualcuno venne da me, cercavano un attore, mi scelsero e per la prima volta avevo una lunch box (la scatola col pranzo dei set cinematografici, ndr). Non avevo mai avuto pasti così ricchi, in mensa a scuola pressavo il riso il più possibile per prenderne di più e dovevo stare attento a non far rumore con le sedie, sennò erano botte”. Di quegli anni, con il padre emigrato in Australia e la madre emigrata a ruota, Chan ricorda soprattutto la solitudine e un registratore a nastro sul quale ascoltare i messaggi registrati dal padre, cui rispondere incidendo a sua volta. L’antieconomicità della cosa rese le registrazioni più saltuarie. “Non so dove siano oggi quei nastri, ma di sicuro produrrebbero lo stesso fiume di lacrime”.

Nemmeno quando, cresciutello, Chan diventa lo stuntman più pagato di Hong Kong i compensi gli consentono una vita dignitosa. Nemmeno la parte in ‘Dalla Cina con furore’ (1972), dove lavora con Bruce Lee (“Bush”, nella pronuncia di Chan). “Passavo tanto tempo al bowling e un giorno Bush volle venire al bowling con me”, e giocare a bowling con Bush Lee non è cosa da niente. Con la morte del maestro, nel 1973, “niente più action movie, la gente era depressa, nessuno mi chiamava più”. Chan raggiunge la famiglia in Australia, dove fa l’operaio. “Poi arrivò un telegramma, un regista voleva girare il seguito di ‘Dalla Cina con furore’. Mio padre mi diede due anni di tempo per diventare qualcuno, altrimenti sarei dovuto tornare da lui”. L’ideatore del progetto è Willie Chan, che diventerà il manager di una vita. Il sequel è un totale fallimento, ma la vita di Chan è già cambiata.

‘Sono il Robert De Niro asiatico’

“Come hai ottenuto il controllo totale della tua persona?”, chiede Nazzaro, perché Jackie Chan è attore, regista, coreografo e molto altro: “Non volevo essere per sempre uno stuntman. Ho imparato come e dove si sta in scena, da assistente alla regia ho imparato l’uso delle lenti, ho imparato anche il make up”. Ringrazia l’omonimo produttore che gli ha sempre fatto fare quel che gli pareva e dice che al mondo esistono solo due grandi registi asiatici: Sammo Hung e lui, “ma Sammo Hung non sa cantare”. Per chi non lo sapesse, Chan ricorda che alla fine di ‘Police Story’ è lui a cantare: “Ho imparato a farlo perché ovunque andassi nel mondo, anche alla radio, mi chiedevano solo di replicare le mie mosse. Un giorno, in America, una presentatrice della tv mi fece prendere per il collo da un energumeno alto due metri per vedermi in azione. Mi dissi: ‘Non puoi fare questo tutta la vita’”. Chan canticchia “Wise men say…”, l’Elvis di ‘Cant’ Help Falling in Love’, e il GranRex se la ride.

Tra le piccole frustrazioni dell’attore c’è anche l’abitudine a essere accolto con immaginari movimenti di Kung Fu. “Ecco a voi Jackie Chan!”, mima i colpi e si chiede: “Perché con me devono fare questa cosa e con Robert De Niro no?”. E si ride ancora. “Quindici anni fa ho deciso che sarei stato il Robert De Niro asiatico. Forse è per questo che il Locarno Film Festival mi ha dato il premio alla carriera…” (applausi).

‘Non sono Superman’

L’osso del collo, si diceva. Nazzaro: “Ti ho guardato rischiare la vita in ‘Project A’ (Operazione pirati), in ‘Who Am I?’ (Senza nome e senza regole), in ‘Operation Condor’: mi sono detto che Dio esiste, perché sei ancora vivo”. Chan: “Non lo so perché rischio la vita, so che voglio il massimo, ma non sono Superman, mi spavento ogni volta”. Vuole il massimo e per questo dice di avere studiato tutti i film del mondo: “Oggi si fanno in un mese, io ce ne mettevo sei. Oggi ci sono più business guy che filmmaker, la domanda non è ‘Come posso fare un bel film?’, ma ‘Come posso rientrare dall’investimento?’”. Avendo studiato tutti film del mondo, Chan ha studiato anche tutti gli action movie del mondo: “Se ad alcuni togli la colonna sonora sono noiosi. I miei invece funzionano anche senza” (segue bel monologo su musica e arti marziali non spiegabile in assenza di gestualità).

Se per Shah Ruhk Khan, un anno fa, ogni titolo di film pronunciato fu una manifestazione di giubilo, per Jackie Chan si è giubilato per davvero solo alla menzione di ‘Rush Hour’ (Due mine vaganti). Ma il singolo giubilo vale la storia: “In America si chiedevano perché tutto quel dimenarmi. ‘Perché non fai come Clint Eastwood, un colpo solo!’, mi dicevano. Ma io non ero Clint Eastwood, io ero il poliziotto di ‘Police Story’!”. Chang rimase in America per due anni, poi se ne tornò a Hong Kong. Quando il suo nome ridivenne popolare, il suo manager gli suggerì di provarci ancora: ‘Sei un poliziotto di Hong Kong, non devi parlare bene l’inglese!’, mi disse”. E arrivò ‘Rush Hour’.

‘Grazie’

La ricerca della perfezione che emerge dai racconti di Jackie Chan ne fa quasi un uomo di teatro. Alla fine dell’incontro, la star ringrazia il suo pubblico, dal quale dice di imparare costantemente: “Più la gente sorride e più mi convinco che il film funziona” e “se a qualcuno hanno dato fastidio parolacce e violenza, io alleggerisco”. Infine, quando pare che non ci sia più nulla da ridere, si lascia andare – senza fare nomi – a una rivendicazione di coerenza: “Vedo attori e attrici che per combattere prendono il volo. Poi, improvvisamente lei soffre per amore e si mette a inseguire lui a piedi: ma perché non voli, dico io!”.

Risata, applauso, sigla, saluti, sipario, ma solo idealmente. Chan si ferma a firmare autografi, concessione che al GranRex non è cosa da tutti. Ma lo aveva detto poco prima: “Sono 64 anni che sono nel business ed è solo grazie a voi”. E anche se la genuflessione è cosa tipicamente giapponese, l’inchino ci sta.