Al regista iraniano in esilio il Premio Locarno Città della Pace, consegnato oggi. ‘Il problema in Iran non è essere un artista, è essere sé stessi’
‘There Is No Evil’, Orso d’Oro alla Berlinale, ‘Il seme del fico sacro’, Premio speciale della Giuria a Cannes nel 2024, presentato a Locarno77. Sono le opere più recenti di Mohammad Rasoulof, regista, sceneggiatore e produttore iraniano condannato più volte dalla Corte rivoluzionaria iraniana, l’ultima lo scorso anno: 8 anni di carcere, con l’accusa di “compromettere la sicurezza del Paese”. Pochi giorni dopo, “con la morte nel cuore”, il regista ha attraversato a piedi le montagne superando il confine e facendosi portare in Germania, dove in precedenza aveva vissuto.
Rasoulof ha ritirato oggi il primo Premio Locarno Città della Pace, riconoscimento biennale istituito dalla Città in collaborazione con il Locarno Film Festival, attribuito nell’ambito della Giornata della Diplomazia, promossa durante il Festival. Il premio nasce con lo scopo di “rafforzare il ruolo di Locarno quale città simbolo del dialogo e della convivenza pacifica e per marcare il centenario del Patto di Locarno del 1925, recitano le note accompagnatorie. A scegliere Rasoulof è stata una giuria composta da Ruth Dreifuss, già presidente della Confederazione Svizzera e membro di commissioni per la difesa dei diritti umani; il presidente onorario del Festival, nonché cittadino onorario della città e ambasciatore dell’Esprit de Locarno, Marco Solari, e poi Raphaël Brunschwig, Ceo del Festival e Nicola Pini, sindaco di Locarno.
Per Nancy Lunghi, capodicastero Cultura, “scegliere Mohammad Rasoulof significa riconoscere l’arte come forma di resistenza, come voce della coscienza collettiva e come impegno civile”. Dal sindaco Pini il ricordo della definizione di Esprit de Locarno, che tra i suoi significati porta con sé “l’opportunità di superare la divisone tra vincitori e vinti per elaborare un discorso universale”. Dalla laudatio, le parole del direttore artistico del Festival, Giona A. Nazzaro, sul cinema di Rasoulof, “una delle espressioni più alte e compiute di un umanesimo che s’incarna con lucidità in un gesto cinematografico esemplare”. Domani alle 11.45 allo Spazio Cinema, il regista incontrerà il pubblico. Anche noi lo abbiamo incontrato.
Mohammad Rasoulof, bentornato…
A Locarno sono venuto la prima volta nel 2002 con il mio primo lavoro e ogni volta è speciale. Ventitré anni dopo ancora si vedono grandi film, non è imposto alcun dress code, nessun frac, pochi eccessi e il posto è sempre fantastico.
A premiarla è la Città di Locarno all’interno di Festival inteso come ‘strumento di comprensione, empatia, dialogo, confronto culturale, sociale e politico’, parole del sindaco. Il direttore artistico del Festival loda invece il suo essere ‘sempre lontanissimo dalla tentazione di semplificare le dolorose contraddizioni che affliggono i rapporti tra istituzioni, potere e individui’. Si ritrova in questi concetti?
È un premio che significa molto per me perché ho sempre pensato che se si vuole aspirare a un mondo migliore, a un mondo di pace, è necessario che ognuno di noi rifletta e s’interroghi sulle proprie responsabilità, che si tratti di politica o di relazioni personali. Nei miei film cerco sempre di fare luce su questo aspetto. Certo, è un macrotema, non posso dire di avere una risposta, ma quel che conta per me è continuare a investigare su questo aspetto.
Una sua connazionale, l’attrice Golshifteh Farahani ospite qualche giorno fa di Locarno78, si è definita una ‘traduttrice della verità’, per la necessità di spiegare al mondo la situazione in Iran con parole che non siano quelle della propaganda. Lei ha una definizione di sé come regista?
Quello che cerco di fare come artista è innanzitutto vedermi come membro della società civile iraniana, mi sento uno dei molti che cercano una risposta alle proprie curiosità. Lascio che quanto accade nella società filtri attraverso di me per fare io da specchio alla società stessa.
Dunque ‘specchio della verità’?
Ogni artista riflette qualcosa, che si tratti di aspetti personali o più sociali. Credo che la creatività sia tutto questo.
Fare film in Iran non è mai un atto solo artistico. Ne era consapevole quando ha iniziato?
Il problema in Iran non è quello di essere un artista, ma di essere sé stessi, e l’intensità del tuo sforzo dipende da quanto ti costringano a essere ‘conforme’ a ogni altra persona. Più ti adatti a quella che dovrebbe essere la regola, più la tua vita è vivibile, e l’occuparsi di diritti civili anche basilari come faccio io significa potenzialmente finire presto o tardi in prigione. Ci sono ostacoli ben precedenti al decidere di mettersi a girare un film, dal taglio di capelli alla possibilità di girare per la città con un paio di pantaloni corti, che è qualcosa di bizzarro e inappropriato.
Quanto è difficile vivere e lavorare fuori dalla propria nazione? Ha mai provato rimorsi per l’essersene andato? Quanto pesa il non poter combattere da dentro per la libertà del suo Paese e del popolo cui lei appartiene?
A Berlino ho lavorato di recente a una pièce teatrale intitolata ‘Destination: Origin’. Parla del viaggio di un esiliato che non riesce a non pensare alla terra che ha appena lasciato. La cultura nella quale si cresce è la finestra sul mondo di ognuno: nel mio caso, un attimo dopo essermene andato dall’Iran stavo già pensando a come sarei potuto tornare, e non credo che la cosa sia diversa da tutti gli altri costretti ad andarsene. Nei quindici mesi successivi trascorsi fuori dal mio Paese, tanti strani e repentini avvenimenti hanno avuto luogo dentro l’Iran, cosa che mi fa pensare che la possibilità di un mio rientro si possa avvicinare, e allo stesso tempo il fatto che le circostanze di questo cambiamento siano così imprevedibili e la relativa repressione così dura, il mio desiderio di essere parte di questo cambiamento storico è ancora più grande. Le conseguenze di quel che accade sono grandissime, soprattutto su chi come me ha fatto dei diritti civili le fondamenta dell’intero suo lavoro artistico. Sebbene io sia fisicamente fuori dall’Iran, la mia mente era in Iran quando questo succedeva e non ho mai smesso di chiedermi se la mia resistenza sia più grande dentro o fuori l’Iran. L’interrogativo è sempre con me.
‘I regimi vanno e vengono, l’arte resta’, diceva Farahani. Il premio che lei, Rasoulof, ha ricevuto si chiama ‘Locarno Città della Pace’: quando immagina sarà possibile ricevere un premio così a Teheran, città di pace?
Grandi cose stanno succedendo, dicevo, che solo quindici anni fa sarebbero state inimmaginabili. Cose anche piccole come la cura per gli animali, lo sfamare i gatti randagi, cosa completamente nuova per noi. Penso che abbia a che fare con l’attenzione e il rispetto che le persone in Iran vorrebbero avere dall’intero sistema. Aggiungo la preoccupazione per i problemi legati al cambiamento climatico, tutti slanci enormi che sono completamente fuori dal controllo del regime. È importante anche il fatto che la società civile, in ognuno dei suoi sforzi di piazza, porti avanti una protesta mai violenta. Molto sta succedendo come risultato del volgere al positivo le cose negative successe negli anni. In questo senso, sono fiducioso.