I flash mob rovinano il Festival dice il foglio di Muzzano, ‘meglio una rassegna sulle tragedie palestinesi’. Scriviamo di dissenso, finché si può
Il post sul social c’è ancora e s’intitola ‘Su Gaza lasciar parlare i contenuti’, come l’editoriale. Ma forse si dovrebbe intitolare ‘Su Gaza lasciar parlare la gente’, perché i commenti sono disattivati. Alla faccia “del dialogo e del pluralismo” di cui lunedì scorso scriveva il direttore del “foglio di Muzzano” (termine un po’ usurato come “La perla sul Verbano”, “La città sulla Limmat” e “Il menestrello di Duluth”, ma che suona sempre bene). Nel pezzo a firma Paride Pelli si evince la palese seccatura per “certi endorsement extra-programma, che rischiano di trasformare Locarno in un festival ‘di Gaza’ e non ‘del cinema’”, con riferimento al flash mob dello scorso 7 agosto in Piazza Grande. “Per capire meglio quello che accade nella Striscia”, il sempre elegante Pelli propone una ben più elegante “rassegna parallela dedicata solo ai registi e alle tragedie di Gaza e della Cisgiordania”, su cui “gran parte degli spettatori sarebbe stata d’accordo”.
Sono molti gli spunti forniti dall’editoriale. Al diavolo la concorrenza fra testate: dev’essere una gran soddisfazione quando “gran parte degli spettatori” della Piazza Grande ti fa sapere cosa ne pensa del Festival. Il giorno dopo il flash mob, al Cdt potrebbero avere scritto in almeno quattro, cinquemila per dire che l’iniziativa era parsa di cattivo gusto e che avrebbero preferito “una rassegna parallela dedicata solo ai registi e alle tragedie di Gaza e della Cisgiordania”. Il nostro giornale non ha quattro, cinquemila lettori che scrivono e-mail tutte le mattine per dire cosa è piaciuto e cosa no in Piazza Grande, e un po’ dispiace. Ferita narcisistica (la nostra) a parte, per il Cdt la colpa della presunta caduta di stile del Festival starebbe in “uno staff (quello del Festival stesso, ndr) che deve imparare a comunicare meglio verso l’esterno, prevedendo o comunque intercettando per tempo potenziali controversie”. Per dirla con Jannacci: “Bisognava saperlo prima” che c’era un flash mob, così non lo avremmo autorizzato, o non avremmo inquadrato la piazza, che è quello che si fa in tv con gli esibizionisti che si denudano durante le partite di calcio e poi scorrazzano per il prato come mamma li ha fatti. “Se me lo dicevi prima” che ci sarebbe stato un flash mob, avremmo avvisato i cameramen perché non riprendessero, i fotografi perché non fotografassero e i giornalisti perché non ne scrivessero. Meglio ancora, il pubblico perché non ne parlasse.
Ma forse Pelli ha ragione. Potremmo essere noi quelli (lo diremo in francese) agées, ancorati a un vecchio modo di dissentire, eccessivo, retorico, ridondante. Forse è arrivato il momento di dire basta a chi protesta dalla mattina alla sera in modi poco eleganti. Basta con le scarpe rosse contro il femminicidio, che nelle piazze creano disordine e sciattezza: perché invece non distribuire poesie di Jacques Prévert così che gli uomini che odiano le donne si possano guardare dentro? Basta marce della pace, che poi le strade si intasano: perché non invece bagni di gong collettivi per incanalare le energie in più eleganti forme di resilienza? Basta concertoni, che già ne abbiamo visti troppi: Woodstock, una manica di fricchettoni in mezzo al fango ad accoppiarsi sulla musica del diavolo; Live Aid, un concentrato di inutili slogan sulla fame nel mondo, che tanto della fame nel mondo non glie n’è mai fregato niente a nessuno. Basta con quelle cose tipicamente italiane come i lenzuoli bianchi appesi alle finestre per dire ‘no’ alla mafia: si organizzi piuttosto una rassegna di film di Franco e Ciccio, perché la Sicilia non è solo mafia.
“Fate rassegne, non la guerra” è il nuovo slogan. “E questo sia detto, ça va sans dire, con tutto il rispetto verso l’immane tragedia in corso nella Striscia”. Ça va sans dire. Anzi, ça va sans rire.
Con eleganza