laR+ L'intervista

Parole e musica di Al Di Meola

A margine del concerto a Estival, alcune verità: i Beatles hanno cambiato tutto, ‘Elegant Gipsy’ è un album metal, il Napoli vincerà la Champions

Giovedì scorso in Piazza della Riforma, con l’Orchestra della Svizzera italiana
(Ti-Press/Francesca Agosta)
12 luglio 2025
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Sostiene D.R. (nome decisamente noto alla redazione) che il 7 dicembre del 1996 aveva i biglietti per il concerto di Al Di Meola, John McLaughlin e Paco de Lucía all’Estadio Luna Park di Buenos Aires, ma quel giorno dovette scegliere tra il trio di chitarre acustiche più famoso e discograficamente redditizio di sempre (‘Friday Night in San Francisco’ del 1981, una specie di ‘Thriller’ della chitarra) e un appuntamento amoroso in città. Erano i giorni di ‘The Guitar Trio’, il ritorno dei Tre Tenores della sei corde a 13 anni da ‘Passion, Grace and Fire’, e D.R. scelse l’appuntamento amoroso. È inutile dire che il concerto perso è per D.R. uno dei suoi rimpianti musicali più grandi, innanzitutto per la non ripetibilità dell’evento, visto che De Lucía è passato a miglior vita nel 2014 e McLaughlin (‘Meclàfin’, come dicono nel Bresciano) va per gli 84. Ah, l’amore, questo folle sentimento che ci fa perdere i concerti più importanti della nostra vita.

«Che dire, è una bellissima storia! Spero che l’appuntamento di questa persona sia stato fruttuoso!». Se la ride Al Di Meola, che sta a Estival Jazz come Zucchero a Moon and Stars, e non passa decennio che non torni a suonare in Piazza della Riforma. La novità di quest’anno, più che il bel disco ‘Twentyfour’, è che il grande chitarrista, valente cuoco e tifoso del Napoli calcio sta cercando casa a Lugano. Uno scatto social lo ritrae all’imbarco dei traghetti, raggiante. “Allora, è così? Vuoi davvero venire a vivere qui?”, gli chiede sul palco Jacky Marti, Mister Estival, alla fine del concerto con l’Orchestra della Svizzera italiana dello scorso giovedì. “Sì, è un posto meraviglioso”, gli risponde Di Meola. E aggiunge: “Ogni posto lontano da Donald Trump è meraviglioso”.

Al Di Meola, ‘Twentyfour’ è il suo lockdown album. Dove possiamo collocarlo all’interno della sua discografia, e cosa significa per lei?

È uno dei progetti più personali ed espansivi della mia carriera. Non riflette soltanto l’isolamento del lockdown, ma anche un inaspettato regalo di tempo, il tempo per riflettere, esplorare, per scendere più in profondità tra le idee musicali. Lo collocherei a fianco dei miei lavori più ambiziosi. È cinematico, stratificato, ma anche molto intimo. Non cerca di abbagliare con la velocità, al contrario, invita a farne parte. È un viaggio emozionale in molti modi. È l’album di cui avevo bisogno a questo punto della mia vita

Le sono serviti anni per registrarlo, tempi che oggi paiono una specie di “chi se ne importa”, il sacrosanto diritto a prendersi tutto il tempo di cui un artista necessita…

È così. Ho raggiunto un punto della mia carriera nel quale non sento alcuna pressione di adattarmi ai tempi dell’industria discografica. Mi sono preso il tempo di cui avevo bisogno non per indecisione, ma per il rispetto nei confronti del processo artistico. Alcune di queste composizioni avevano bisogno di respirare, di evolvere. È stato come lavorare a un dipinto, uno strato dopo l’altro di suono e di emozione, fino alla completezza. Vedo il “chi se ne importa” di cui dice lei come una vera dichiarazione di libertà, nel senso che ho fatto il disco nel modo in cui sentivo di doverlo fare.

Il suo modo di registrare musica è cambiato nel corso di questi anni?

Sì, in modo drammatico. Agli inizi eravamo confinati in studi costosissimi, con i registratori a nastro e nelle orecchie il ticchettio dell’orologio. Oggi posso registrare nel mio home studio ogni volta che l’ispirazione mi prende, che sia di mattina presto o nel cuore della notte. La libertà di sperimentare, modificare, di scendere nei mini dettagli è un lusso di cui non ho mai goduto nei giorni dell’analogico. La tecnologia ha fatto progressi, ma soprattutto è progredita la mia abilità di esprimermi utilizzandola.

Aspettando il concerto, dalle sue pagine social sono arrivate immagini delle prove con l’Osi nell’Auditorio Stelio Molo, mentre suonate ‘Ava’s Dance in the Moonlight’. Sappiamo che il brano è dedicato a sua figlia, Ava. Ci racconta come è nato?

Ava aveva quattro anni quando il brano è stato scritto, e aveva appena visto Lo Schiaccianoci di Tchaikovsky per la prima volta. Quella sera è venuta nel mio studio a darmi la buonanotte, abbracciando la sua bambola: senza dire una sola parola, ha cominciato a volteggiare come una ballerina, in modo innocente e pieno di meraviglia. Ho preso la chitarra e ho cominciato a suonare una ninna nanna, per lei. Col tempo, la piccola melodia è cresciuta, diventando prima un solo e poi una composizione orchestrata per intero. ‘Ava’s Dance in the Moonlight’ è una lettera l’amore verso quell’istante che mi porto dentro, verso Ava e la gioia dell’essere padre.

L’album precedente, ‘Across the Universe’, non è il primo tributo di Al Di Meola ai Beatles. Nel 2013 era già uscito ‘All Your Life’. Cosa c’è di grande nei Beatles per un chitarrista, e per lei in particolare?

I Beatles hanno cambiato tutto, non solo nella musica popolare, ma in come i musicisti si approcciano alla scrittura, in termini di armonia e di emozione. Le loro canzoni sono ricche dal punto di vista melodico e armonicamente avventurose, specialmente nell’ultimo periodo. Come chitarrista, sono affascinato da come la loro musica possa tradursi in modo così splendido in arrangiamenti strumentali. C’è così tanto da esplorare in quello che hanno scritto, non solo tecnicamente, ma dal punto di vista emozionale. La loro influenza mi scorre dentro e ‘Across the Universe’ è stato il mio modo di rendere omaggio alle melodie che hanno formato la mia anima musicale.

La lista di chitarristi hard rock e heavy metal che hanno dichiarato di essere stati influenzati da lei è lunghissima. Se lo sarebbe mai aspettato? E c’è un album dei suoi più ‘influenzante’ di altri per quei chitarristi che la citano quale ispiratore?

È sempre sorprendente sapere di esercitare questa influenza, ma ne sono incredibilmente lusingato. Non ho mai avuto alcuna intenzione di influenzare il metal o il rock, ma posso capire la connessione. Album come ‘Elegant Gipsy’ erano intensi, veloci, intricati e drammatici, quel tipo di energia attraversa generi e confini. Io credo che quell’album in particolare abbia trovato riscontro tra i musicisti che erano interessati a spingersi oltre i limiti tecnici. Sì, forse ‘Elegant Gipsy’ è il mio ‘album metal accidentale’: nessuna distorsione, solo fraseggio e ritmo ‘high voltage’.

Tornando a quel concerto di Buenos Aires: sarebbe pensabile oggi un tour mondiale con tre chitarristi acustici negli stadi? E se lo fosse, chi vorrebbe a fianco a sé?

Il Guitar Trio con Paco de Lucía e John McLaughlin fu qualcosa di speciale, di magico. Potrebbe accadere ancora? Con la stessa chimica? Io credo di sì, ma dovrebbe andare molto oltre il talento, avrebbe bisogno di condivisione di un linguaggio musicale e di mutuo rispetto. Sono davvero colpito da giovani chitarristi come Matteo Mancuso, che fa cose incredibili, o Antonio Rey, che porta con sé un profondo sentimento flamenco. Un trio moderno sarebbe possibile, e se l’energia dovesse essere quella giusta, anche gli stadi sarebbero possibili, senza ombra di dubbio.

Molti dei musicisti con cui lei ha lavorato non ci sono più. Pino Daniele oggi avrebbe settant’anni. Può dirci qualcosa della vostra collaborazione?

Pino era uno di quei rari artisti che riuscivano a fondere stili senza alcuno sforzo – neapolitan soul, jazz, blues e pop – e rendere il risultato pienamente autentico. Aveva una bellezza cruda, viva nella sua voce e nel suo modo di suonare la chitarra. Tra noi c’è stata una connessione musicale assai intuitiva. Mi manca molto, sia come collaboratore che come amico. Era vero, originale, con la sua morte il mondo ha perso qualcosa di veramente unico.

Non ci sono particolari anniversari per ricordarlo, ma le faccio la stessa domanda per Chick Corea…

Chick era un gigante, mi ha cambiato la vita. Suonare con lui nei ‘Return to Forever’, da giovane musicista quale io ero al tempo, è stato come essere lanciato nella stratosfera della creatività. Era impavido, curioso all’infinito e profondamente gentile. Aveva questa capacità di pianificare il meglio per ognuno dei musicisti che gli stava intorno. Ha lasciato un grande vuoto, ma la sua influenza è ovunque. Penso a lui sempre, al suo sorriso, alla sua spinta, alla sua sconfinata immaginazione.

Poco fa parlava di tecnologia. Cosa ne pensa della possibilità di chiedere all’intelligenza artificiale (IA) ‘scrivi un pezzo alla maniera di Al Di Meola’ o ‘suona alla maniera di Al Di Meola’? La cosa la spaventa? Saremo o siamo davvero tutti replicabili?

L’IA mi interessa e allo stesso tempo so che non potrà mai creare quel tipo di umana connessione che è esclusiva degli artisti. Potrà replicare il mio stile, ma non potrà replicare me, o cosa io tento di esprimere attraverso la mia musica, che va oltre le note o gli algoritmi. È una questione di anima. La musica reale ci connette a un livello che va oltre le parole che potrebbero spiegarlo, è un livello emozionale, spirituale, che si forma sull’esperienza completa dell’essere vivi, e questo le macchine non possono replicarlo. Detto questo, non mi crea alcun problema il fatto che l’IA faccia il ‘regular stuff’, i compiti tecnici o ripetitivi. Se può sopperire in quello e darmi più tempo per comporre e suonare, è la benvenuta. Ma se crede di entrare nell’espressione umana, quello è territorio sacro.

L’ultima domanda: secondo lei il Napoli potrebbe vincere la Champions League l’anno prossimo?

Con il Napoli tutto è possibile! Hanno dimostrato di avere stile, disciplina e cuore. Se saranno in buona salute e manterranno vivo il loro fuoco, allora sì, credo che potrà succedere. Il calcio è come la musica, è una questione di ritmo, emozione e di crederci. E il Napoli ce li ha tutti e tre. Quindi, forza Napoli!

Questa sera

Rubalcaba, Savoretti e l’ambasciatore d’Africa

La terza e conclusiva serata di Estival Jazz in Piazza della Riforma si apre alle 20 con il Trio d’Été di Gonzalo Rubalcaba, pianista e compositore scoperto da Dizzy Gillespie e divenuto uno dei grandi dello strumento, destinatario di numerosi Grammy. A seguire, dalle 22, il raffinato pop-rock di Jack Savoretti, cantautore italo-britannico con trascorsi di vita a Carona, reduce dall’album ‘Miss Italia’, il primo interamente cantato in lingua italiana. A chiudere, dalla mezzanotte in poi, torna a Estival Youssou N’Dour con Le Super Étolie de Dakar, storica formazione dell’ambasciatore della musica africana nel mondo.