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Non escludo il ritorno

‘La seconda venuta di Hilda Bustamante’ di Salomé Esper, o di come lo scandaloso miracolo di una resurrezione è che nessuna resurrezione è un miracolo

Capisce gli zombies di Minecraft, meno Gesù
(Keystone)
17 aprile 2025
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“Perché si muore, papà? Ma davvero, una volta morti, si può resuscitare?”.

Con Giulio, mio figlio, sei anni, ultimamente parliamo spesso di morte, di ritorno dalla morte. Questa cosa della resurrezione che gli stanno raccontando da qualche settimana a scuola lo affascina, anche se non la riesce a comprendere a fondo: capisce gli zombies di Minecraft, meno Gesù. Emmanuel Carrère, una volta, in un’intervista ha detto “effettivamente quella di Gesù è il tipo di resurrezione più bizzarra: si dice che sia tornato dai morti, qualcuno lo vede, qualcun altro no, appare, scompare, non sappiamo niente di quello che è successo”.

Ne La seconda venuta di Hilde Bustamante, il romanzo d’esordio di Salomé Esper pubblicato da SUR (traduzione di Carlo Alberto Montalto), nelle librerie da qualche mese, Hilda, letteralmente, torna. Risorge. È morta quando aveva settantanove anni, un anno prima di quando si svolgono i fatti raccontati da Esper. E un giorno, così, all’improvviso, si sveglia: tutt’attorno è oscurità, il profumo umido della terra, i vermi in bocca, “prese a dare colpi sul legno, sapeva che sopra c’era la terra e avrebbe dovuto anche attraversarla, che doveva fare presto, il caldo era troppo, più della tristezza, più delle domande, qualcosa le ardeva dentro”.

Non ricorda di essere morta, ma sa di essere viva. Con questa certezza, diluita in mille rivoli di incredulità, semplicemente torna a casa. Nelle prime due pagine o poco più del romanzo non c’è mito, non c’è terrore: c’è in cambio tutta la semplicità del realismo nel raccontare qualcosa di, ecco, magico. La prima grande trappola che ci tende Salomé.

Risolvere

Non si torna dall’aldilà così, come diversivo per sconfiggere la noia dell’eternità. È quello che ci hanno sempre trasmesso, insegnato, cercato di far capire: dietro ogni resurrezione c’è la volontà – la necessità – di risolvere qualcosa. Ammesso che ci sia qualcosa da risolvere. Hilda Bustamante mi ha fatto tornare in mente il personaggio principale di Sdraiati in affari di Alain Mabanckou, pubblicato un anno fa da 66thand2nd, Liwa Ekimakingaï (nome che significa “la morte ha avuto paura di me”), anche lui invischiato in una seconda venuta, che si sveglia nel Frère Lachaise, il cimitero di Pointe-Noire, in Congo-Brazzaville, e inizia un viaggio che gli regalerà coscienza del perché della sua morte, certo, ma anche di come le sperequazioni e le contraddizioni della società continuino, casomai amplificate, nel mondo dei non vivi.

Jorge Luis Borges, in un racconto di Martín Prieto pubblicato su Infobae nei giorni in cui la pandemia era un mistero insondabile quasi quanto quello della resurrezione, torna in vita per togliersi qualche sassolino dalle scarpe e rinfocolare l’amore per la letteratura argentina sommersa. Hitler nel film Lui è tornato e Mussolini in Sono ritornato riappaiono per mettere in risalto l’incompatibilità, e allo stesso tempo la continuità, delle loro figure con i cosiddetti tempi moderni. Hilda (nome germanico che significa lottatrice) Bustamante (patronimico d’origine cantabrica che ha a che fare con un prato dell’amore, scelte chissà quanto cercate da Esper) non ha conti in sospeso, ha vissuto una vita normale, ordinaria si potrebbe dire, e l’ha vissuta fino alla fine, andandosene per cause naturali. Non deve salvare nessuno, né tantomeno perseguitare nessuno. La sua morte non è stata violenta, ingiusta – ammesso che esista una morte giusta –, non cerca vendetta. La sua seconda venuta non ha l’aspetto di una seconda opportunità.

Senza moralismi

Hilda, questa morta scappata a Dio (ma se Dio è perfetto, come fa a sfuggirgli via un morto?), sembra tornare, più che altro, per rinfocolare braci e sollevare domande in chi la circonda. Nel marito Álvaro, vedovo-ex-vedovo. In Amelia, la nipotina-non-nipotina. Nelle Devote, le “ragazze” della Chiesa. Nel piccolo mondo provinciale ed elegiaco che la circonda. Il grande pregio di Esper è di raccontare questo scandaloso ritorno senza aneliti moraleggianti, con uno sguardo volutamente naïf, bambino, svuotato da sottotesti. Con gli occhi, insomma, di mio figlio Giulio quando mi chiede “ma davvero si può risorgere?”. Sarà che Cent’anni di solitudine su Netflix ci ha fatti scendere a patti – intendo come immaginario collettivo, non come chi sul carro c’è stato da sempre – con la normalità dei figli con la coda di maiale, dell’invasione di farfalle, dei morti che ritornano. Ogni volta che fanno capolino le parole realismo e magico nelle interviste che Salomé Esper ha rilasciato (per questo, prima, parlavo di trappola) lei si schermisce, dice che magari è un po’ too much, e credo lo dica soprattutto per gli accostamenti agli autori di quella corrente, non per il reale impatto immaginifico. La storia di Hilda e della sua seconda venuta è ambientata in un piccolo centro, nella provincia argentina, probabilmente dalle parti di Jujuy, che è la città che a Salomé ha dato i natali, consegnandole alla nascita un bel cesto di credenze, di folklore, e la domanda che si porgono tutti quelli che, nascendo in provincia, si portano dietro un sostrato mitico: cosa ci faccio, adesso? Magari non c’entra niente, lei stessa candidamente ammette di non averci pensato, ma chissà che un’influenza non l’abbia esercitata anche la sua lunga permanenza in Messico, in una terra in cui la relazione con la morte, con i morti, si vive in una maniera tutta peculiare.

Ovunque, però, ogni resurrezione, in qualche modo, è un miracolo. E ogni miracolo si porta dietro delle aspettative. Chissà che il romanzo di Salomé, in fondo, non sia una storia sulle aspettative.

Di fronte a una dipartita non ci interroghiamo mai a sufficienza su che fine faccia chi rimane. A un certo punto Esper scrive: “Quando Hilda morì, Álvaro aveva settantotto anni. Il suo dolore era indescrivibile. Quando si rividero e l’orologio riprese a camminare, avevano ormai la stessa età. Da allora in poi, il tempo non ebbe più importanza”.

Fin’ara luna

Nei giorni in cui stavo leggendo la storia di Hilda sono andato a vedere un concerto di Brunori Sas, nel suo ultimo album c’è una canzone, Fin’ara luna, che parla del dolore di una separazione a quel punto della nostra vita in cui ci chiediamo “e adesso che faccio senza la persona con cui ho vissuto tutto questo tempo?”. Nella canzone la persona che se n’è andata si chiama Maria. “E ogni notte prego ’u Padre Eterno ca si pigghiassa pure a vita mia, ca tanto io senza i tia un ci pozzu sta’”, dice il testo, parole che nella mia testa hanno fatto il paio con altre, sempre di Brunori, bellissime, che stanno in Poveri Cristi nella canzone Bruno mio dove sei, quando dice “perché non è facile sapere che non tornerai mai più, che questa casa enorme ha poco senso se non ci sei tu”. Hilda è Bruno, Hilda è Maria, e Álvaro è la disperazione un po’ rassegnata che d’improvviso si trova a passare dal resistere al re-esistere, all’esistere ancora, al tenersi ancora mano nella mano, in silenzio, seduti sul letto, senza niente da chiarire, senza nulla da sperare. Senza doversi stare a chiedere “e adesso?”, ma con l’imperativo di viverselo, quell’adesso.

Nei libri cerchiamo la poesia, la semplicità nel raccontare quel groviglio di complessità che è la vita, la capacità di trovarci a ridere, o a commuoverci, di fronte ai fatti che ci si dipanano sotto i piedi. La maniera in cui Salomé Esper affronta le pachidermiche minuterie dell’esistenza non è mai folklorica, didascalica, moralizzante.

Unguento

Il rapporto con la morte, con il ritorno dalla morte, nella narrativa argentina è una costante, soprattutto in quella a partire dagli anni Ottanta, quando si è fatta chiave interpretativa della morte intesa come sparizione che non contemplava l’impossibilità di riapparire. Quando si è fatta unguento con cui un’intera cultura ha cercato di lenire il dolore di ferite aperte, di elaborare un lutto incompleto. In Purgatorio di Tomás Eloy Martínez (pubblicato dieci anni fa, sempre da SUR) una vedova incontra nuovamente il marito in un locale, il marito desaparecido, dopo decenni in cui lo ha dato per morto. Mariana Enriquez, in Quando parlavamo con i morti, pubblicato da Caravan Edizioni nel 2014, racconta qualcosa di simile: i desaparecidos, a volte, sono stati protagonisti di seconde venute, non sempre gloriose, non sempre meno dolorose della morte (la violenza dell’isolamento che vive Silvia Labayru dopo essere scarcerata dall’Esma, raccontata ne La Chiamata, non è una prosecuzione delle torture subite nel centro di detenzione clandestino?). Con questa chiave di lettura La seconda venuta di Hilda Bustamante non ha niente a che vedere, eppure ha tantissimo a che vedere, perché dipinge i morti-che-ritornano come personaggi calmi, dolci, che tornano, sì, ma a fare cosa?

A illuminare il contesto che li circonda, forse.

Lo sguardo che posa Salomé Esper sui personaggi del suo romanzo è uno sguardo benevolente, dolce, comprensivo: riflette, e ci fa riflettere, sulla vita e sulla morte rendendo entrambe meno definitive di quanto siamo portati a pensare, e poi ci spalanca tutta una serie di quesiti sulla famiglia, sull’amore, sulla fede, sull’amicizia, sulla fedeltà e sull’infedeltà, sull’inspiegabile.

Lo fa con una delicatezza unica, inusitata, senza solennità, lasciando da parte il fatalismo e le sovrastrutture, facendo il solletico al pensiero – tutt’altro che anodino – che ci assale di fronte all’assenza: stai a vedere che il vero miracolo è quello che viviamo prima che quell’assenza si concretizzi, senza rendercene troppo conto, o dargli troppo peso, e che casomai la seconda venuta è solo un escamotage per farcene prendere coscienza.

Devo ricordarmi di raccontarlo a mio figlio Giulio: si può resuscitare, figlio mio. Lo facciamo ogni giorno, quando ci svegliamo.


Edito da SUR