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Prospettive alpine sul clima che cambia

Il riscaldamento globale dovrebbe diventare patrimonio culturale condiviso, non terreno di scontro politico, ha spiegato Maurizio Maugeri

Il punto di distacco della frana sul Kleines Nesthorn sopra il ghiacciaio Birch
(keystone)
2 giugno 2025
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Professor Maugeri, partiamo dalle basi: quanto è solida scientificamente la relazione tra concentrazione di CO2 e temperature globali? Glielo chiedo perché molti ancora criticano questa relazione.

Molti no: a criticarla sono pochissimi, solo che sono molto rumorosi. Fanno un fracasso enorme, a volte sono anche sostenuti economicamente, però si tratta di una esigua minoranza e tra di loro non ci sono persone con un buon profilo scientifico che conoscono il problema. C’è, a volte, qualche ricercatore o professore nell’ultima fase della carriera, persone magari di ormai 80 anni: l’età non è ovviamente un fattore negativo, però vede, oggi chi cavalca l’onda del negazionismo ottiene una risonanza che non otterrebbe se invece dicesse le cose che dice il 99% della comunità scientifica. E tante persone che si trovano, per ragioni di età, a essere fuori dalla comunità, assumono queste posizioni per un disperato bisogno di una ribalta. Penso che neanche loro ci credano, alla fine, perché ci sono tante di quelle evidenze… voglio dire, basta che in laboratorio si metta a far passare la radiazione infrarossa misurando l’assorbimento della CO2.

Insomma, non c’è spazio per dubbi.

Se lei mi sta chiedendo se ci sono ancora degli aspetti aperti, allora apriamo tutto un altro discorso. Se parliamo ad esempio delle previsioni di quello che accadrà fra 50 anni, possiamo discutere della precisione di quelle cifre, ma questo non c’entra niente con il negazionismo, questo è rigore scientifico. Il negazionismo è una posizione che a priori, prima ancora di ragionare, ha già deciso dove vuole arrivare. Ma sul fatto che una maggiore concentrazione di CO2 porta a un aumento delle temperature è una cosa che si insegna nei corsi universitari di fisica, non è un’opinione. Se il nostro pianeta non avesse il suo effetto serra naturale, la temperatura sarebbe di 30 gradi più bassa e la vita, nelle forme in cui la conosciamo, non ci sarebbe e il pianeta sarebbe coperto di ghiacci. La Terra ha già nel suo clima naturale un effetto serra: quello che fa l’uomo con le emissioni è rendere questo effetto più marcato. È un fenomeno fisico che conosciamo benissimo e che non c’è solo sulla Terra: sappiamo che c’è anche su altri pianeti. Se non ci fosse l’effetto serra i pianeti non avrebbero la temperatura che hanno e sono calcoli non dico elementari, ma alla portata di un qualsiasi studente di un corso di laurea in fisica, non è ricerca di frontiera.

Invece se andiamo a vedere tutti i vari effetti più nel dettaglio, qui magari entra in gioco anche tutta la questione dell’atmosfera, le correnti…

Certo, dopo il sistema si complica, ci sono i processi di feedback di cui tenere conto. È chiaro che se uno mi dice che la corrente del golfo potrebbe spegnersi da qui a 50 anni, parliamo di ipotesi, di ricerche che si pubblicano e si discutono, sapendo che il sistema è complicato e nessuno sa dire se accadrà veramente o se è solo una possibile evoluzione del sistema. Questo fa parte di quell’affinamento, del miglioramento della conoscenza di come funziona il sistema del clima. Ma che il sistema oggi subisca una pressione enorme non lo mette in dubbio nessuno. O quasi nessuno, perché c’è sempre qualcuno che nega i dati. Del resto, c’è chi dice che la Terra sia piatta, per cui non c’è limite a quello che le persone possono arrivare a sostenere.

Guardando a quello che può capitare, quello che i modelli cercano di prevedere, mi sembra di capire anche dalle sue ricerche che l’Europa non è esattamente uno dei posti più tranquilli per quanto riguarda il riscaldamento climatico.

In generale tutte le terre emerse si riscaldano più velocemente nei mari perché non hanno l’effetto di inerzia termica degli oceani, ma ci sono indubbiamente delle aree che si riscaldano più di altre e l’Europa è una di queste. Bisogna anche dire che noi europei riusciamo a valutare i nostri cambiamenti climatici a partire da una data più vecchia, perché abbiamo delle serie storiche più lunghe: l’Europa è stata un po’ la culla della meteorologia e riusciamo a mettere insieme delle buone serie lunghe 200-250 anni, partendo dalla fine del Settecento che, per ragioni naturali, è stato un periodo molto freddo. Parliamo della coda di un periodo che si chiama “piccola età glaciale”.

Insomma l’Europa è particolarmente sensibile al riscaldamento globale, ma non è certo l’unica terra a esserlo.

No, il cambiamento climatico è un problema planetario. E dobbiamo anche ricordarci che un conto è il cambiamento climatico che noi osserviamo, un conto sono gli impatti di questo cambiamento e questi dipendono anche dalla vulnerabilità del territorio e nelle aree di pianura l’impatto del cambiamento climatico sarà molto più ridotto che nelle aree di montagna. In montagna ci sono i crolli delle pareti, i ghiacciai che si riducono, il ciclo dell’innevamento che cambia completamente. Gli effetti che vediamo sono una combinazione della pressione del fenomeno naturale e della vulnerabilità del territorio.

Di pareti rocciose e ghiacciai che cedono ne sappiamo qualcosa, in questi giorni. Possiamo attribuire al riscaldamento globale eventi come quello che ha distrutto il villaggio di Blatten in Vallese o come l’alluvione a Valencia dell’anno scorso? Mi rendo conto che con queste domande vesto un po’ i panni del ‘climascettico’…

Ma su questo ne ha tutte le ragioni. Non tutto quello che succede dipende dal cambiamento climatico: i nostri territori, in Svizzera, in Italia e in altri Paesi, sono per loro natura vulnerabili ai fenomeni meteorologici. Se andiamo a studiare la storia dell’Ottocento o dei secoli precedenti, vediamo che è costellata da grandi alluvioni: l’impatto dei fenomeni naturali esiste anche a prescindere dal cambiamento climatico. Quello che noi ci dobbiamo chiedere non è tanto se un evento è possibile, ma se il cambiamento climatico ne altera la frequenza. Un evento che finora poteva presentarsi statisticamente ogni 200 anni, col cambiamento climatico magari può presentarsi ogni 50 anni; ma quando effettivamente arriva non gli si può attaccare l’etichetta del cambiamento climatico.

Questo però ci toglie l’argomento più forte e immediato per spiegare l’impatto del cambiamento climatico: se non possiamo dire che quell’evento estremo è colpa del riscaldamento globale, cosa possiamo dire?

Io cerco sempre di far passare il messaggio di un sistema complesso che non permette di avere risposte facili a domande banali. Le conclusioni le possiamo trarre, ma non consistono nell’etichettare un singolo evento come dovuto al cambiamento climatico, ma di fare una statistica seria, raccogliendo dati, controllandoli, analizzandoli.

Non è il mio mestiere, imbrogliare le persone, e secondo me non è neanche giusto come strategia della comunicazione: mi capita, quando tengo una conferenza, di fronteggiare persone che sono pregiudizievolmente contrarie all’argomento del cambiamento climatico, e se queste persone vedono uno che cerca con onestà di dire che alcune cose si possono dire mentre su altre cose bisogna essere un po’ più cauti, cade quella barriera difensiva e quelle persone sono più disposte anche ad accogliere tutto il resto.

Come ho detto all’inizio, ci sono tantissime cose che sappiamo con grande certezza: facciamo leva su queste, anziché raccontare che quello o quell’altro episodio sono direttamente collegati al cambiamento climatico. Perché poi ci sarà qualcuno che dice che non è vero, chi ascolta rimane disorientato e anche tutto il resto che racconto diventa privo di valore.

Le attività umane aumentano la concentrazione di CO2 che a sua volta aumenta le temperature, con eventi estremi più frequenti e violenti. Cosa possiamo fare? C’è chi dice che dobbiamo investire nella mitigazione, riducendo le emissioni, e chi invece punta sull’adattamento.

Adattamento e mitigazione non devono essere viste come due strategie alternative: devono essere viste come due strategie che si integrano. Il problema è talmente complicato che dobbiamo fare entrambe le cose, dobbiamo ridurre le emissioni altrimenti il cambiamento climatico andrà fuori controllo, ma per quanto saremo bravi a ridurle sarà comunque un passaggio molto graduale. È abbastanza scontato che almeno fino al 2050 la concentrazione di CO2 continuerà ad aumentare: gli sforzi che siamo chiamati a fare servono a evitare che salga fino al 2070, al 2080 o peggio ancora al 2100. Nel frattempo però ci si adatta per ridurre l’impatto che può avere il cambiamento climatico.

Parliamo di orizzonti temporali decisamente più ampi di quelli ai quali siamo abituati.

Lo so, è il motivo per il quale si fa così fatica ad affrontare questo tema: una molecola di CO2 resta per dei secoli, nell’atmosfera, i suoi effetti si dispiegano su dei tempi lunghissimi e noi eleggiamo governi e parlamenti che stanno in carica 4 o 5 anni. Chi risponde agli elettori non ha nessun vantaggio a spendere soldi per una cosa che gli darà un ritorno dopo la metà del secolo. È un problema dal quale, secondo me, si può uscire solo togliendo il riscaldamento globale dal dibattito politico, facendo sì che il cambiamento climatico non sia una questione di destra o sinistra ma un qualcosa di condiviso da tutti, una cosa che fa parte del nostro patrimonio culturale. Bisogna avere la fiducia, la forza e il coraggio di fare questi investimenti a lungo termine, sia nel campo della mitigazione che nel campo dell’adattamento.

Come sarà, al di là di temperature più alte, il clima europeo al quale dovremmo adattarci?

Per quanto riguarda le precipitazioni, non ci aspettiamo grandi cambiamenti per i prossimi decenni a livello di apporti lungo l’arco dell’anno. Quello che cambierà sarà il rapporto tra precipitazioni solide e liquide: nevicherà meno, proprio per effetto dell’innalzamento delle temperature e cambieranno quindi anche le portate dei fiumi, con meno acqua nella stagione primaverile ed estiva, anche per effetto della maggiore evapotraspirazione. Il che è un problema, perché l’acqua serve quando le temperature sono più alte, al quale possiamo far fronte almeno in parte con l’immagazzinamento dell’acqua nei bacini, sia quelli naturali che sono quasi tutti sbarrati, sia in quelli artificiali che abbiamo disseminati un po’ su tutto il territorio delle Alpi.

Visto che parliamo già di adattamento, cosa altro possiamo fare?

Nell’ultima parte della conferenza racconto un po’ cosa si fa a tutte le scale spaziali e temporali, come i grandi congressi internazionali, e poi chiudo la conferenza dedicando qualche minuto a quello che ognuno di noi può fare nella sua vita quotidiana. Siamo tutti emettitori e come prima cosa si può appunto prendere consapevolezza delle nostre emissioni: basta guardare la bolletta energetica o fare caso a quanto ci si muove con l’auto o l’aereo. Anche le scelte alimentari hanno un impatto sulle emissioni di composti climalteranti. Cerco di dare qualche spunto, anche con un questionario che abbiamo prodotto col mio gruppo di ricerca: ci si mette 10 minuti e ci si fa un’idea dell’impatto del proprio stile di vita.

Giovedì a Lugano

Conferenza al Museo di storia naturale

Professore alla Statale di Milano, Maurizio Maugeri è esperto di fisica dell’atmosfera e di climatologia e ha studiato in particolare l’evoluzione del clima della regione alpina e dell’area mediterranea.

Giovedì 5 giugno alle 20 al Museo cantonale di storia naturale a Lugano Maugeri terrà la conferenza ‘Cambiamenti climatici: basi fisiche ed evidenze osservative’.

Entrata libera. Gradita l’iscrizione a lara.lucini@ti.ch.