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Quando in Ticino c’erano rinoceronti che mangiavano le foglie

Il Museo cantonale di storia naturale ospita la mostra ‘La mano del clima e la mano dell’uomo’ per mostrare l’impatto delle attività umane sulla megafauna

Rinoceronte di Merck Stephanorhinus kirchbergensis (130’000-71’000 anni fa), vissuto nel penultimo periodo interglaciale
(disegno Roman Uchytel)
1 marzo 2025
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Nelle terre tra Ticino e Lombardia c’erano rinoceronti, bisonti, ippopotami e anche loro, i mammut simbolo del festival diffuso L’Uomo e il Clima (uomoeclima.org) che, per la mostra al Museo cantonale di storia naturale, ci porta alla scoperta della cosiddetta “megafauna”. Parliamo degli animali di grandi dimensioni presenti, fino a qualche migliaio di anni fa, in gran numero di specie ed esemplari. Di questa megafauna oggi restano pochi sopravvissuti, spesso di nuove specie più piccole, e diverse tracce. Alcune poco evidenti: il nocciolo dell’avocado, troppo grande per essere ingerito dagli animali oggi presenti in America centrale e meridionale, ci ricorda l’esistenza del bradipo gigante oggi estinto (destino al quale l’avocado è sfuggito grazie alla domesticazione, ma di questo si parlerà dopo). Altre tracce della megafauna sono più evidenti e diffuse, come le grandi ossa che riemergono lungo le rive del Po e dei suoi affluenti alpini, tra cui il Ticino.

Sono i cosiddetti fossili alluvionali: sono infatti le piene a portare alla luce queste ossa che altre piogge avevano già trasportato più a valle, depositandoli nelle insenature. Questo significa che è praticamente impossibile trovare interi scheletri, come invece può capitare nelle “giaciture primarie”, cioè nel luogo dove l’animale si è originariamente fossilizzato. E, soprattutto, significa che i ritrovamenti di queste ossa sono spesso fortuiti e fatti da persone comuni, escursionisti che dopo una piena passeggiano lungo corsi d’acqua. È così capitato che ieri, all’inaugurazione della mostra, insieme alle varie presenze istituzionali e accademiche ci fosse anche il fortuito scopritore del fossile raffigurato nel manifesto dell’esposizione.

Una lunga storia tagliata a metà

Si è accennato alle presenze istituzionali e accademiche: la mostra ‘La mano del clima e la mano dell’uomo’, che fino al 21 febbraio 2026 sarà visitabile al Museo cantonale di storia naturale a Lugano, rientra come detto tra le attività del festival diffuso L’Uomo e il Clima e vede la collaborazione, oltre che dei “padroni di casa”, del Dipartimento ambiente costruzione e design della Supsi per l’allestimento (opera di Anna Bolla ed Eleonora Sostero), del Museo di storia naturale di Milano che ha prestato i vari reperti e del Ministero della cultura italiano.

Il curatore della mostra è Cristiano Dal Sasso, responsabile della sezione di Paleontologia dei vertebrati al Museo di storia naturale di Milano, che ci ha spiegato l’impianto generale dell’esposizione, con lo spazio diviso in due da una serie di pannelli disposti in diagonale. Quei pannelli stabiliscono anche una linea del tempo che colloca i vari reperti nel loro contesto: il penultimo periodo interglaciale, grosso modo da 130 a 70mila anni fa, quando l’Insubria era abitata da animali che oggi associamo a luoghi più caldi come rinoceronti – diversi da quelli attuali, che brucano l’erba e hanno quindi la testa bassa –, ippopotami e uri, ovvero i grandi antenati dei bovini contemporanei. L’ultima era glaciale, da 70 a 14mila anni fa, quando i ghiacciai alpini arrivavano fino a Milano e in quella che oggi chiameremmo tundra troviamo bisonti, mammut – impressionante una mascella con gli enormi denti incastonati nell’osso –, cervi giganti e alci con i loro palchi larghi anche quattro metri.

Abbiamo, come detto, singole ossa, dalle quali potrebbe essere difficile comprendere la reale dimensione di quegli animali: certo, l’omero di mammut (e ancora di più il piede di elefante che troviamo nel corridoio che ci porta alla sala) lascia pochi dubbi, ma anche per gli altri fossili l’allestimento fa capire la maestosità di questi animali. Sagome disegnate sulle pareti rendono ancora più evidente la loro stazza, superiore ai loro discendenti moderni.

L’arrivo dell’umanità

Il percorso ci porta così alla fine dell’era glaciale. E in Europa la presenza di quella che, con un po’ di cinismo, dovremmo definire una specie invasiva arrivata dall’Africa inizia a farsi massiccia. Parliamo di Homo sapiens e il suo arrivo è marcato da quello che il curatore ha definito «un oggetto simbolico e oserei dire totemico». Il manufatto è un’ascia ricavata da un corno di cervo risalente all’età del rame. La lavorazione dell’oggetto è molto fine, con il foro a tronco di cono in cui infilare il manico di legno di quella che, vista la posizione dell’impugnatura, era un’arma e non una zappa. Una dimostrazione dell’abilità umana, ma anche di come l’essere umano «inizi a intervenire sulla natura e sugli animali». Superando la teca dell’ascia attraversiamo quella linea diagonale che divide in due lo spazio espositivo: siamo nell’Olocene e non è più l’oscillazione naturale del clima, con periodi glaciali e interglaciali, il fattore principale per comprendere l’evolversi della vita. I grandi animali non ci sono più: abbiamo cinghiali, caprioli, capre. Una parte della megafauna che dominava l’Insubria nelle epoche precedenti ha ridotto la propria taglia a causa di un territorio sempre più trasformato dall’uomo, una parte si è semplicemente estinta. E una parte è stata domesticata. Alcuni pannelli ci mostrano come il bestiame rappresenti oltre il 60% del peso complessivo di tutti i mammiferi sulla terra, mentre quelli selvatici sono intorno al 4 per cento.

Sono ossa fossili, piccole tracce di grandi animali che millenni fa abitavano questi territori. Ma sono in grado di raccontare e far vedere qual è l’impatto delle attività umane.