laR+ la recensione

U., coreografia per voce e spazio

Palco spoglio, movimenti praticamente assenti: un vuoto che Alessandro Sciarroni usa per lasciare dare forza a canti apparentemente senza tempo

10 febbraio 2025
|

‘U.’ di Alessandro Sciarroni, in scena venerdì sera al Teatro Sociale di Bellinzona, è uno spettacolo sorprendente e affascinante, difficile da ricondurre a un genere teatrale preciso. Anche chi non conosce i lavori dell’artista italiano, Leone d’Oro alla carriera alla Biennale danza nel 2019, si accorge dell’atipicità di ‘U.’ semplicemente entrando in sala e trovandosi di fronte un palco completamente spoglio, con visibili ballatoi e altre attrezzature che, anche negli spettacoli con scenografia minimalista, sono nascoste da una quinta; giusto alcuni microfoni che pendono dall’alto fanno capire che il palcoscenico è in realtà pronto per la rappresentazione.

Entrano i sette interpreti – la bellinzonese Raissa Avilés, Alessandro Bandini, Margherita D’Adamo, Nicola Fadda, Diego Finazzi, Lucia Limonta e Annapaola Trevenzuoli –, indossano abiti improbabili e si posizionano, immobili, in fondo al palcoscenico; sulla parete alle loro spalle vengono proiettati titoli, autori e versi significativi della prima canzone: ‘È l’alba, l’aurora’ di Claudio Bernardi e Piercarlo Gatti. Durante quello e i brani successivi – undici in programma più un bis, perlopiù canti di montagna –, i sette rimangono immobili, con lo sguardo fisso sul pubblico ed espressione indecifrabile; solo in alcuni momenti, durante le pause in cui si sentono unicamente dei respiri, avanzano con movimenti lenti e sincronizzati (che personalmente ho trovato, in alcuni momenti, un po’ inquietanti). Con gli ultimi canti, gli interpreti si trovano praticamente sul proscenio, riducendo la distanza – spaziale ed emotiva – con il pubblico.

Come è stato raccontato durante l’incontro con la compagnia dopo lo spettacolo – e come emerso in diverse interviste –, per gli interpreti è difficile, oltre che inusuale, cantare restando immobili, senza potersi guardare o contare sulle indicazioni di un maestro del coro. Essenziale, ovviamente, il lavoro fatto durante le prove, ma soprattutto la capacità di concentrarsi su altri aspetti e altri sensi. E questo vale sia per le sette persone sul palco, sia per il pubblico che, superato il momento di sorpresa iniziale, si ritrova insieme agli interpreti in uno spazio di ascolto quasi meditativo.

Così, dopo pochi minuti ci si rende conto che quello spazio apparentemente antiteatrale è in realtà molto teatrale (grazie anche al notevole lavoro di luci di Valeria Foti capace di ridisegnare completamente la scena) e che quei corpi immobili sono una “coreografia in negativo”. Sciarroni, come in lavori precedenti, è partito da una pratica tradizionale – e cosa c’è di più tradizionale di canti come ‘Signore delle cime’ di Bepi De Marzi? – e l’ha decostruita, creando qualcosa di apparentemente antitetico che tuttavia si rivela non un tradimento, ma un rafforzamento dell’idea iniziale.

Come gli interpreti, anche il pubblico si concentra sulle voci, sui testi di quei canti che raccontano il rapporto tra uomo e natura, la spiritualità, valori come la pietà e la compassione. Le scritte proiettate subito prima dei brani ci ricordano che quella tradizione è in realtà recente: il repertorio scelto da Sciarroni va dal 1969 (il già citato ‘Signore delle Cime’) agli anni Duemila e anche il francescano ‘Fratello sole, sorella luna’ arriva dal film di Zeffirelli del 1972. E questo forse spiega gli apparentemente improbabili costumi (opera di Ettore Lombardi) con i loro rimandi agli anni Novanta (iniziando da una imbarazzante, ma perfettamente coerente, camicia con l’effige di Kurt Cobain), in contrasto con la solennità dei canti ma che, appunto, evidenzia il reale contesto storico.

Dicevamo che ‘U.’ è uno spettacolo difficile da inquadrare: performance teatrale, danza, concerto? È una domanda che potremmo anche ignorare, nonostante le perplessità che, si legge, sono state sollevate alla prima di ‘U.’ al Festival Bolzano Danza, vista l’assenza di movimenti coreografici (domanda tutto sommato lecita, ma alla quale è difficile non ribattere, quasi in una gag da avanspettacolo, “ma non è l’assenza di movimento essa stessa un movimento?”). Il fatto è che lo spettacolo di Sciarroni ha una coreografia, costruita sulla voce e lo spazio, in una essenzialità che esalta il potere della parola e della voce, raggiungendo profondità emotiva e ricchezza di significati inimmaginabili, quando ci si trovava di fronte il palcoscenico spoglio.