Fabiana Iacozzilli chiude la sua Trilogia del Vento con ‘Il grande vuoto’, in scena al Lac di Lugano il 22 maggio
Fabiana Iacozzilli non ha paura del vuoto. Lo guarda, ci si butta dentro, lo riempie di oggetti e poi li toglie, come in un gioco da bambini che vogliono vedere cosa resta. Con ‘Il grande vuoto’, in scena domani alle 20.30 al Lac, la regista e autrice romana conclude la sua Trilogia del Vento – iniziata con ‘La classe’ e ‘Una cosa enorme’ – e lo fa interrogando, senza giri di parole, la vecchiaia, la memoria e l’eredità che, più che trasmessa, si sedimenta come la polvere negli angoli.
“Ci siamo un po’ interrogati sulle grandi tappe: abbiamo l’infanzia, la maturità e poi siamo arrivati a Il grande vuoto in cui abbiamo affrontato il tema della vecchiaia, della perdita e della morte”, racconta la regista. “Al centro, una famiglia che si trova ad affrontare la malattia neurodegenerativa e perde i pezzi della propria memoria e quindi, lentamente, va verso il vuoto”. Una malattia mai nominata, ma facilmente riconoscibile da chi resta, costretto a reinventare una grammatica dell’affetto senza più verbi al presente. “Sono le persone che sono accanto al malato a dover scivolare nel mondo del malato. Reinventare un modo per continuare ad avere una relazione”.
In scena si muove una casa che si svuota di presenze e si riempie di oggetti, una sorta di altare disordinato della memoria. “Con la scenografa Paola Villani abbiamo costruito un bignami di casa,” spiega Iacozzilli. “Raccontiamo l’ultima giornata di una coppia di anziani anche attraverso l’autovettura che li ha accompagnati per tutta la vita, diventata un surrogato della casa. La scenografia cerca di riflettere la mente della donna che lentamente si deforma, amplificandone il disorientamento”. Le telecamere a circuito chiuso registrano la madre, una sorta di Cassandra dimenticata. Il video non è solo un supporto, ma una presenza che restituisce il senso dell’osservare a distanza chi si è perso. “Il vuoto della relazione tra madre e figli prende forma in una scena dove loro non ci sono. Quindi si narra l’assenza, ma la seguono attraverso delle telecamere a circuito chiuso all’interno della sua casa dove non c’è più nessuno”, dice l’autrice.
A guidare la scena, Giusi Merli, nel ruolo di un’ex attrice che ha perso quasi tutto, tranne una cosa: un monologo da Re Lear. “Durante le improvvisazioni, Giusi ha portato questo suo cavallo di battaglia e ci è sembrato perfetto utilizzare questa sua memoria. E quindi raccontare come questa donna attrice perde tutto, perde il marito, perde il ricordo, perde il nome del figlio, ma l’ultima scheggia che le rimane dentro fino alla fine è questo monologo, è questa voglia di reinterpretare quel Lear”. E proprio da qui arriva uno degli snodi drammaturgici dello spettacolo: “Uno dei centri del Re Lear è comunque il tema dell’eredità. Anche noi ci siamo chieste che tipo di eredità lasci il contatto con la perdita della memoria di un genitore. Perché nel momento in cui un genitore si dimentica di me, anch’io sono portata a chiedermi: chi sono?”. Una domanda identitaria che trova corpo sulla scena. Ogni oggetto è un relitto, ogni gesto un’eco di qualcosa che è già stato. Eppure non c’è solo dolore. “La leggerezza di cui ci parla Italo Calvino è, per me, sempre la strada migliore per arrivare a far fare anche un salto mortale allo spettatore. Parto sempre dall’ironia per poi attraversare il dolore. Mi sembra l’unica strada possibile”.
La drammaturgia è firmata con Linda Dalisi, storica collaboratrice: “Le ho dato un po’ di input iniziali. Lei ha saputo cucire con precisione le immagini di partenza che le avevo affidato, accompagnandomi in un lungo percorso di improvvisazioni. Linda era con me, scriveva, metteva a fuoco e restituiva agli attori, passo dopo passo, una griglia di lavoro sempre più precisa”.
Nel cast anche Francesca Farcomeni, Piero Lanzellotti, Ermanno De Biagi e Mona Abokhatwa. “Quello che ho cercato di fare, e che continuo a fare anche nel nuovo progetto, è costruire una compagnia ibrida. Mi piace includere figure che si confrontano per la prima volta con il lavoro scenico e il palcoscenico: trovo che questo cortocircuito sia molto interessante, capace di aprire strade stimolanti”. Ed è proprio Abokhatwa, nei panni della badante, a raccontare in scena il significato della matrioska – oggetto ricorrente che ha accompagnato la memoria del Lear messo in scena a San Pietroburgo: “Mi capita spesso di portare in scena oggetti che mi appartengono. Sono come testimoni”.
E ora che la trilogia si chiude, cosa viene dopo? “Sto lavorando a Oltre, un nuovo progetto che debutterà a novembre al Romaeuropa Festival. Lavoriamo su una storia vera: lo spettacolo prende spunto dalla vicenda dell’incidente aereo del Fairchild nel 1972”. Anche lì, tra ciò che resta e ciò che si inventa per sopravvivere, la memoria continua a essere un campo da scavare.