Lo definirono ‘nazionalpopolare’, specificando che non si trattava di un complimento. E invece lo era. In quanto musicista, fu garante di buona musica
Nel 2024, durante il quinto Sanremo di Amadeus, di fronte al delirio disco-dance dell’allora presentatore e direttore artistico, qualche nostalgico della musica suonata decise di riabilitare Pippo Baudo, uno che alla guida di tredici Festival della canzone italiana, un record, portò sul palco del Teatro Ariston tanta musica leggera (che così leggera non è mai) ma anche il jazz, la canzone d’autore, quella demenziale e i temi sociali. In un processo di revisione storica una volta tanto sensato, il presunto conservatorismo baudiano in ambiti musicali pareva avanguardia di fronte ai nuovi signori della musica, da anni prostratisi davanti ai click di boriosi rapper fattincasa e belle senz’anima rette da un software che fa cantare tutti. Quel ricordarsi dell’apertura mentale di Baudo che portò a Sanremo gli Elio e le Storie nella demolizione controllata del Belpaese intitolata ‘La terra dei cachi’, per esempio, era suonata come un “quando c’era lui”, concetto che oggi in Italia va per la maggiore, o come il rimpiangere la Democrazia Cristiana in tempi di vacche politicamente magre. Un rimpianto, quello della Dc, che anni fa venne dallo stesso Baudo: “Manca a me e a tutto il Paese un partito forte, determinato e pieno di grandi personaggi”. Davanti agli odierni aspiranti statisti senza lessico, qualcuno rimpiange finanche Silvio Berlusconi, uomo di spettacolo come Baudo ma con un paio di differenze: Baudo non è mai sceso in campo, e per l’Italia ha fatto cose belle.
Diciottenne, nell’ottobre 1954, Giuseppe Raimondo Vittorio Baudo molto presto detto Pippo era partito con l’amico Piero Attoma dalla Sicilia alla volta di Trieste, pagandosi il viaggio con i cachet minimi degli spettacoli parrocchiali, forte del saper cantare e suonare il pianoforte. Non era un Sinatra, tutt’altro, e nemmeno un Luttazzi (Lelio), comunque era un musicista. La Rai, che aveva cominciato a trasmettere nel gennaio di quell’anno e al sud non era ancora arrivata, a Trieste aveva dispiegato tutte le sue forze e Pippo se n’era innamorato perdutamente: “Osservavo il lavoro dei cameramen: vestiti con camici bianchi, mi sembravano chirurghi o scienziati in azione, tra chilometri di fili neri e telecamere che si muovevano continuamente”. Quel lavoro finiva nel muro di nuovi apparecchi televisivi impilati nella vetrina di un vicino negozio di elettrodomestici: “Mi ritrovai d’improvviso in una specie di gigantesco luna park in cui però era tutto vero. E l’intera scena mi parlava di futuro”.
Quando a Pippo Baudo chiesero quando avesse deciso di fare tv, lui rispose parlando di quel viaggio nella Trieste che tornava italiana, “perché la mia è la storia di un italiano”. Lo scriveva lui – insieme a Paolo Conti, e insieme ai virgolettati poco sopra – in ‘Ecco a voi. Una storia italiana’ (Solferino, 2018), sincera, gradevolissima e a suo modo fondamentale autobiografia di chi ha scritto la storia della tv ma anche quella di un intero Paese. Spilungone difficilmente inquadrabile che voleva fare l’attore e aveva ripiegato sulla conduzione per l’innata predisposizione a stare in mezzo alla gente, il giovane Baudo era dotato di uno charme tutto suo e della necessaria improvvisazione: “Negli spettacoli ci sono sempre vuoti scenici e imprevisti, un buon presentatore deve saperli gestire”, diceva.
“Fantasista. Buona presenza. Buon video. Discreto nel canto. Suona discretamente il pianoforte. N.B. Può essere utilizzato per programmi minori”. Questo è Baudo nel 1960 per gli archivi della Rai, che gli affida ‘Primo piano’, il programma musicale del pomeriggio. Tra un Festival della Canzone napoletana e un Gran Festival di Piedigrotta, e i consigli della direzione generale a gesticolare di meno perché è poco serio (“Io ho le braccia lunghe, sono sempre stato alto e magro, mi veniva istintivo muoverle”), al volante di un’auto di una Piazza San Giovanni ancora aperta al traffico, Baudo ebbe l’idea di un talent ante litteram chiamato ‘Settevoci’, rigettato dall’azienda ma tornato utile più avanti per mettere una toppa a una pizza (il nastro magnetico) danneggiata di ‘Rin Tin Tin’: la prima puntata fa ascolti record e Baudo decolla. Per qualcuno la storia di ‘Rin Tin Tin’ sarebbe una leggenda metropolitana, perché l’emissione di ‘Settevoci’ sarebbe già stata programmata. Noi preferiamo la leggenda metropolitana.
L’Edizione straordinaria del Telegiornale Rai per annunciare la morte di una persona di spettacolo è cosa per pochi. Il primo canale l’ha affidata lo scorso sabato alla talentuosa Giorgia Cardinaletti, che senza la faccia di circostanza di chi deve piangere per forza (tra i presentatori di oggi pare una regola) ha raccolto con invidiabile misura le reazioni di tutti quelli che Baudo aveva “inventato”, come lui amava dire. I social son lì da leggere e vedere, tra tributi sinceri e indirette autocelebrazioni. Tra le lacrime, le iperboli e i “santo subito”, scegliamo parole del critico Aldo Grasso: “Più che un ‘Ed ecco a voi’, il suo era un ‘Ed ecco a noi’”, per l’includersi di Baudo dentro il fatto quando prima di lui il presentatore annunciava gli ospiti e basta. Per questa sua partecipazione, Grasso lo definisce “un regista in campo”. Un po’ l’Italia lo ha dato per scontato, Baudo, e un po’ la sua televisione è finita. Certo è che in tutto quel che ha portato in onda c’erano la professionalità sua e degli altri, e non un filo di volgarità. Vediamola così: uomo Rai quasi per conformazione fisica, andandosene da Mediaset dove un giorno era approdato, nelle sue Domeniche In Pippo Baudo non ha mai dovuto ospitare i ragazzi del Grande Fratello, sui quali invece Maurizio Costanzo (oggetto come il collega di un attentato di mafia, cui scamparono entrambi) costruì il peggio delle sue Buone domeniche. Anche in questo l’Italia l’ha sottovalutato: Pippo era un signore.
Nel 1986, con Baudo già padrone assoluto del mezzo televisivo, la Rai cade nelle mani dei socialisti e nello specifico in quelle di Enrico Manca, neopresidente. “Al suo arrivo – scrive Baudo nell’autobiografia – (Manca, ndr) aveva bisogno di un coup de théâtre e fu scelto il sottoscritto come protagonista”. Il ‘Fantastico’ di Baudo, il perfezionamento dello show del sabato sera italiano, ha ascolti plebiscitari, ma il presidente dice ad Antonio Padellaro, al tempo al Corriere, che quel programma è diseducativo “perché, in senso non gramsciano, nazionalpopolare”. Attraverso Gigi Vesigna, l’allora direttore di Sorrisi e Canzoni TV, Baudo fa sapere al presidente che farebbe bene a concedere meno interviste e che per rispettare il suo volere comincerà a fare spettacoli “regionali e impopolari”. L’aria si fa pesante e arriva Silvio Berlusconi: “Gli chiesi un appuntamento – racconta Baudo – e lui mi spiegò che eravamo fatti l’uno per l’altro”. Il cavaliere insiste perché il presentatore, restio, accetti il ruolo di direttore artistico delle reti Fininvest. “I venti di guerra cominciarono a soffiare subito, purtroppo, mi accorsi che gli illustri colleghi dell’azienda mal sopportavano il mio ruolo”: Antonio Ricci lo sbeffeggia in ‘Striscia la notizia’, Corrado “piazzava qualche battutina qua e là”, Maurizio Costanzo lo tiene a distanza. Dalla sua parte ha solo Sandra e Raimondo e, inaspettatamente, Mike Bongiorno.
Alla fine di ‘Festival’, non certo il progetto più riuscito della sua carriera, l’addio a Berlusconi, dalla penale salatissima: “per gesto dimostrativo nei confronti dei colleghi”, il cavaliere si fa dare un palazzo sull’Aventino comperato da Baudo con i suoi risparmi e il bar annesso. Ad Arcore, nella camera accanto, è già pronto il notaio con l’accordo da firmare: “Lesse il compromesso e come un automa firmai. In pochi minuti avevo perso lavoro e patrimonio, ma non passava mese che Berlusconi non mi offrisse di rientrare in azienda. Per questa e altre ragioni i nostri rapporti sono rimasti amichevoli”.
‘Conduzioni’ è vocabolo riduttivo per i suoi tredici Sanremo. Baudo interveniva in prima persona nelle canzoni, cambiando la storia delle stesse e dei relativi interpreti. Qualcuno sostenne che chiedesse i cosiddetti “punti di Siae” (percentuali sul diritto d’autore), ma non era così. Il suo primo Festival risale al 1968, un anno dopo il (presunto) suicidio di Luigi Tenco, quando la Rai cercò di cancellare ogni residuo di tristezza e polemica generato dai cantanti del 1967, accusati di non avere imposto la sospensione della gara, e da un Mike Bongiorno sin troppo perentorio nel suo “The show must go on”. Il primo Sanremo di Baudo fu quello dell’accoppiata tra cantanti italiani e stranieri, del grande vibrafonista Lionel Hampton chiamato a ripetere al pubblico i riff delle canzoni (ma Hampton non sapeva leggere la musica e il direttore d’orchestra glieli cantava nell’orecchio). Fu soprattutto l’anno di Louis Armstrong, sul palco con il gruppo Dixieland (Cerri, Cuppini, De Filippi, Gualdi). È storia della tv: ‘Satchmo’ canta ‘Mi va di cantare’, alla fine i Dixieland accennano per scherzo ‘When The Saints Go Marching In’ e Armstrong tira fuori la tromba: altra musica sarebbe contro il regolamento così Baudo accompagna il jazzista all’uscita. “Ci rimase malissimo”, ricorda Pippo, “ma pensai che tanto non l’avrei più rivisto. Invece lo rividi tre giorni dopo al Teatro della Fiera di Milano, senza sapere che era in corso un incontro con lui. Mi guardò negli occhi furioso e urlò: ‘You! F*** it!’”.
Tra gli epitaffi televisivi degni di nota c’è il tributo di Mediaset, che il giorno dopo la sua morte ha aperto il Tg con parole sue: “Se analizzo la mia carriera – dice Baudo a Simone Cristicchi – mi accorgo che è tutta verso il prossimo, che è tutta una ricerca di talenti. Sono anche diventato una barzelletta vivente: ‘L’ho inventato io’ è la piccola ostentazione dell’orgoglio per avere scoperto dei personaggi con grande fortuna sì, ma anche con grande attenzione. La canzone pare una piccola cosa e invece è grande. Sono le piccole cose che muovono la ruota del mondo. Messe insieme, fanno un mosaico della felicità, propria e altrui”.
Baudo ha inventato anche Pippo Baudo, forse è per questo che alla fine della sua autobiografia intervista sé stesso: rivela la sua delusione più grande, il ‘no’ detto al bravo Rosario giunto da Brucoli con un monologo troppo lungo (Fiorello), e racconta il dopo Mediaset, quando rimase chiuso per un anno nella sua casa di Morlupo pensando di darsi all’avvocatura, stante la laurea in giurisprudenza. E dice ancora: “Mi piacerebbe bloccare lo scorrere del tempo e fermarmi ora. A ottantadue anni ho ancora la lucidità per ricordare, pensare e fare anche qualche progetto”.
Pippo Baudo è morto a 89 anni, di sabato sera, all’orario di ‘Fantastico’. Per chiuderla con una canzone: “E adesso la pubblicità”.