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La Befana? Non ci risulta

Dire che il dialetto sta scomparendo è un’affermazione scontata. Da tempo il prof. Ottavio Lurati deplorava questa progressiva scomparsa, affermando che ‘stiamo perdendo una lingua importante, la lingua delle nostre radici’.

Per correttezza occorrerebbe parlare di dialetti, al plurale. È risaputo come il dialetto di Locarno (ti disi, ti senti) sia differente da quello momò, quello di Lugano da quello di Bellinzona, dove alcune parole cambiano l’accento rispetto alla pronuncia del resto del cantone. Tuséta e péss vuole la maggior parte dei nostri dialetti, mentre nella capitale si pronunciano tusèta e pèss. Quest’accento tipicamente milanese va riferito alla classe borghese della Turrita che guardava come modello ai nobili milanesi, signori della città, copiandone la pronuncia. Questi termini rimasero poi nel dialetto parlato nella capitale.

Con il vernacolo scompare tutta una serie di parole che si riferivano con precisione a un attrezzo, a un picchio, a una robinia (oggi si parlerà genericamente di uccello o di pianta) e con i termini scompaiono anche i proverbi (la ‘memoria’ degli anziani) e il loro significato.

Mi pare che anche i nostri media, Tv e radio, stiano contribuendo ad affossare il nostro dialetto e le nostre tradizioni. Dando voce e ore di emissione alle più banali mode commerciali che provengono spesso da ‘fuori’. Basti pensare alla sciagurata festa di Halloween o a numerose altre ricorrenze inventate per vendere dolci e fiori. Cancellando le nostre tradizioni che illustravano la ricorrenza dei morti o il fatto che l’usanza della zucca vuotata per metterci un lumino fosse praticata da secoli nel Mendrisiotto (per poi farci, con la polpa, la bülbura). Recentemente la nostra radio ha invitato al microfono, e non è la prima volta, una signora le cui competenze di filosofia e di etnografia non sono in discussione. Peccato che il suo dialetto sia quello ‘da Ulgiaa’, di Olgiate Comasco. Non credo che questo sia il modo migliore per rendere un servizio al nostro dialetto.

Altro elemento contestabile sono le ore di emissione dedicate alla Befana. Una tradizione sconosciuta nel nostro cantone. Fu Augusto Turati che ebbe l’idea della ‘Befana fascista’ ordinando alle Federazioni di sollecitare a commercianti, industriali e agricoltori donazioni in occasione della festa. La prima Befana fascista del 6 gennaio 1928 ebbe un grande successo che ne decretò la riproposizione annuale. A partire dal 1934, dopo la caduta in disgrazia di Turati, la Befana fascista cambiò la denominazione in Befana del duce. Sono vicende poco note da noi. La notte del 6 gennaio, seguendo la stella cometa, nel cantone arrivavano i Re Magi. Erano loro a passare di casa in casa per rifocillare i loro cammelli di fieno e sale, depositati dai bambini sui davanzali in un canestrino o in una scatola da scarpe. Lasciando un paio di calze o un’automobilina con la chiavetta come ringraziamento.

Sergio Maspoli seppe descrivere con maestria la trepidazione dei piccoli per il passaggio annunciato, in attesa di vedere i regali ricevuti. ‘Da nüm è sempro passat i sciamp di camei, quii ch’a vegn dal desert. Süi camei, i Trii Re... (Da noi sono sempre passati gli zoccoli dei cammelli, quelli che vengono dal deserto. Sui cammelli, i tre Re, grandi grandi, che a guardare fuori dalle fessure delle gelosie, si vede l’ombra, un’ombra fatta di chiaro di luna, filata da mille e mille sogni: i Tre Re.) Così voleva la nostra tradizione. E di befane, fatta eccezione per qualche ragazza scontrosa, non c’era traccia.